L’ultimo decreto flussi ha raddoppiato il numero di lavoratori stranieri che possono fare ingresso in Italia. Ma le politiche in tema di immigrazione continuano a essere carenti e improntate a burocrazia.
- L’ultimo decreto flussi ha raddoppiato il numero di lavoratori stranieri che possono fare ingresso in Italia rispetto all’anno scorso. Per ridurre l’arrivo di stranieri irregolari, serve l’ampliamento di canali regolari. Ma il decreto flussi non basta.
- Va rivalutata una proposta di legge del 2017: permessi temporanei per attesa occupazione, il sistema dello sponsor (legge Turco-Napolitano), la regolarizzazione individuale di stranieri che lavorano o hanno legami familiari.
- Vi sono esempi di “burocrazia discriminatoria” nella legge e in procedimenti per la concessione della cittadinanza. La logica dei decreti Sicurezza non è ancora stata superata.
Qualche giorno fa, il governo ha deliberato il cosiddetto decreto flussi, vale a dire il provvedimento che determina quanti lavoratori stranieri possono fare ingresso in Italia in un determinato anno. Può essere utile valutare come questo decreto concorra alle politiche nazionali in tema di immigrazione e segnalare alcune distorsioni.
Decreto flussi 2022
Il decreto ha disposto per il 2022 l’entrata di un numero massimo di 69.700 persone non comunitarie per lavoro subordinato (stagionale e non stagionale) e per lavoro autonomo. Nell’àmbito di questo ammontare, ci saranno 42mila ingressi per motivi di lavoro subordinato stagionale, nei settori agricolo e turistico-alberghiero; 27.700 ingressi, invece, per motivi di lavoro subordinato non stagionale e di lavoro autonomo, nei settori dell’autotrasporto merci per conto terzi, dell’edilizia e turistico-alberghiero.
Ma non tutti saranno nuovi ingressi. Infatti, una quota di permessi è destinata alle conversioni da permesso per studio (2mila), per lavoro stagionale (4.400) e per altre causali, quindi riguarderà persone che già si trovano in Italia.
Il problema
Il decreto flussi nel tempo è andato perdendo consistenza, arrivando ad autorizzare – come nel 2020 – circa la metà dei lavoratori rispetto a quest’anno, e per gran parte stagionali o già presenti in quanto titolari di altri permessi di soggiorno. Il potenziamento di quest’anno è quanto mai opportuno. Infatti, «quando si pongono forti restrizioni all’immigrazione regolare, aumenta l’immigrazione clandestina – come riportato da Tito Boeri nella relazione Inps del 2018 –. A fronte di una riduzione del 10 per cento dell’immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5 per cento» .
Tuttavia, questo strumento è stato usato talora in modo improprio, per legittimare l’entrata “formale” di chi fosse già presente in Italia e lavorasse in modo irregolare. Del resto, il decreto flussi consente l’assunzione di stranieri appena arrivati, probabilmente non formati e che forse hanno anche difficoltà con l’italiano.
Questo è il principale limite del decreto, nonché il motivo per cui si è prestato a usi distorti. Resta comunque valido il principio per cui, al fine di ridurre l’arrivo di stranieri irregolari, serva l’ampliamento di canali regolari. E il decreto flussi non basta.
Una proposta alternativa
Servirebbe rivalutare la proposta di legge di iniziativa popolare del 2017 avanzata nell’àmbito della campagna “Ero straniero”. Innanzitutto, un permesso di soggiorno temporaneo (12 mesi) da rilasciare a lavoratori stranieri per facilitare l’incontro con i datori di lavoro italiani, anche attraverso intermediari.
In secondo luogo, il sistema dello sponsor, originariamente previsto dalla legge Turco-Napolitano, per l’inserimento nel mercato del lavoro di persone straniere con la garanzia di risorse finanziarie e di un alloggio, agevolando quanti abbiano già lavorato in Italia oppure frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale. In terzo luogo, la regolarizzazione individuale di stranieri in situazione irregolare, quando sia dimostrabile – tra le altre cose – che lavorano o hanno legami familiari.
Favorire l’entrata di stranieri irregolari non è “buonismo”. Il nostro sistema previdenziale regge fin quando i contributi pagati dai lavoratori in un certo anno riescono a finanziare la spesa per le pensioni nel medesimo anno. Il crollo della natalità rende necessario reperire altre fonti di finanziamento: l’entrata di immigrati regolari – generalmente giovani o, comunque, nelle fasce attive – permetterebbe di aumentare il numero dei contribuenti.
La regolarizzazione
L’ultima sanatoria di stranieri irregolari, prevista dal governo nel maggio 2020, è stata un fallimento. Essa avrebbe dovuto consentire, tra le altre cose, di colmare immediatamente la mancanza di lavoratori nel settore agricolo. I ritardi hanno inficiato l’intento. Alla fine di ottobre scorso – secondo i dati divulgati da “Ero straniero” – su 230mila domande presentate, solo poco più di un terzo era stato finalizzato e appena 38mila permessi di soggiorno erano stati rilasciati.
La gestione delle pratiche da parte del Viminale è stata non solo inefficiente, ma anche improntata alla burocrazia più deleteria. Domande di regolarizzazione sono state rigettate con la motivazione che gli instanti non avevano risposto alla richiesta di documenti integrativi da parte del Viminale o alla convocazione da parte dello Sportello unico del lavoro.
Nessuna richiesta o convocazione era pervenuta, ma gli interessati non potevano ovviamente dimostrarlo, trattandosi di una prova impossibile da fornire (la cosiddetta “probatio diabolica”). E così le relative istanze sono naufragate.
La burocrazia discriminatoria
La burocrazia a volte assume connotati “discriminatori”. È il caso della norma, ancora vigente, del primo decreto legge Sicurezza voluto da Matteo Salvini (n. 113/2018), ai sensi della quale, «per il rilascio degli estratti e dei certificati di stato civile occorrenti ai fini del riconoscimento della cittadinanza italiana» si prevede un termine di sei mesi dalla presentazione della richiesta da parte degli stranieri. Si tratta di documenti che gli italiani normalmente ottengono a vista.
Una sorta di burocrazia discriminatoria è anche quella che si riscontra in tema di cittadinanza italiana. Il primo decreto Sicurezza aveva raddoppiato i termini già previsti per l’acquisizione, portandoli da 24 a 48 mesi, e con efficacia retroattiva. Nell’ottobre 2020, un nuovo decreto (n. 130) ha abrogato la norma precedente, fissando a 36 mesi il termine di durata massima del procedimento.
È palese che, venuta meno la norma retroattiva che stabiliva i 48 mesi, alle domande di cittadinanza presentate prima del decreto Sicurezza si tornasse ad applicare il termine di 24 mesi sancito della disciplina previgente. Ma il Viminale è di diverso avviso, e così le prefetture si adeguano e prolungano i termini del procedimento per la cittadinanza.
Insomma, la logica dei decreti Salvini non è ancora stata superata. Si “gioca” sulla successione delle leggi nel tempo, ma di fatto si “gioca” con la vita delle persone. Quanti se ne rendono conto, ora che Salvini non è più al ministero dell’Interno?
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