L’ex segretario propone un’agenda delle opposizioni. E dice: «malgrado la potenza di fuoco mediatica e politica, non mi pare si possa dire che la destra italiana stia conquistando l’Italia»
Mentre parliamo con Nicola Zingaretti, a Bruxelles si discute dei saluti romani a Roma. Invece, a Roma, nel Pd passa un po’ sotto silenzio l’arresto di Nicola Oddati, ex dirigente dem, ai tempi della sua segreteria; ma anche dirigente della Campania di Vincenzo De Luca e infine responsabile delle Agorà di Enrico Letta.
Chiediamo: dispiaciuto o sorpreso dalla vicenda? «Un po’ sì. Da quando mi sono dimesso non abbiamo più avuto occasione di sentirci» Aggiunge: «Ho fiducia nell’agire della magistratura. È giusto e nell’interesse di tutti che si faccia piena chiarezza per accertare la verità».
L’Europarlamento ha discusso dei saluti fascisti, sui quali la premier Giorgia Meloni non ha detto una parola. I suoi sostengono che ha fatto sufficiente professione di democrazia. Basta così?
È l’ennesima conferma che il centrodestra pensato da Silvio Berlusconi non esiste più. La destra che ha vinto nel 2022 lo sta sostituendo con qualcosa di diverso: un’alleanza di destra, imperniata su FdI, unita dalla gestione del potere, dalla ossessiva ricerca di nemici e dalla necessità di affermare un’altra identità. Molte leggi che si stanno approvando sono provvedimenti-manifesto.
Come la furia iconoclasta sul Reddito di cittadinanza o il no a prescindere sul salario minimo. Sul tema del passato, il silenzio è complicità. Perché il fascismo è stato il protagonista del male assoluto. E dire solo mezza verità è già un fatto politico.
Quindi fa bene il Pd a chiederne conto a Meloni?
Sì. Ma la priorità è che rispetto alla pandemia l’Italia è il paese Ocse che ha registrato il calo maggiore dei salari reali, -7,5 per cento nel 2023. E, secondo le stime Ocse, nel 2024 sarà -10 per cento. La battaglia culturale antifascista e il presidio popolare a difesa della democrazia sono fondamentali. Ma il modo di difendere la Costituzione è attuarla.
Per questo bisogna prosciugare i motivi che portano al disimpegno, all’astensionismo e al voto a questa destra. E il consenso alla destra, che comunque è minoranza nel paese, ha come radice più che la storia passata il malessere per la propria condizione di vita e per l’assenza di futuro. L’alternativa si costruisce con un presidio valoriale e l’agenda sociale.
Perché la destra sui problemi lucra. Noi invece quei problemi li dobbiamo risolvere. Non c’è un ordine gerarchico, prima l’antifascismo e poi l’agenda sociale o viceversa: ma bisogna sapere che si tornerà a vincere su un’agenda delle opposizioni.
L’antifascismo sposta consensi? Al momento non sembra.
Si è antifascisti perché si ama la libertà, e questa è una convinzione profonda nel paese. Poi diciamo la verità: malgrado la potenza di fuoco mediatica e politica, non mi pare si possa dire che la destra italiana stia conquistando l’Italia.
Anzi, forse più di mezza Italia è in attesa di un’alternativa. Perché Meloni e il suo governo sono prigionieri di uno schema. Hanno un progetto per vincere le elezioni, si sono uniti mettendo insieme blocchi sociali diversi: lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, o rendita parassitaria, ma anche sottoproletariato, precari e operai.
I primi chiedono deregulation e meno tasse, i secondi redistribuzione. Questa roba non sta insieme. Quindi oscillano sempre fra l’illusione di meno tasse, e invece le aumentano, e mance per i deboli. Distruggono il welfare e danno le mance. È un tema irrisolto per loro.
Dice che la destra andrà in crisi?
Dico che questo apre per le opposizioni un enorme spazio di iniziativa politica. Perché assistiamo a una perenne fibrillazione di una classe politica nella quale convivono progetti radicalmente diversi. Che trovano compromessi in scelte anti italiane.
Come l’autonomia differenziata e il premierato: è uno scambio. Ma l’autonomia è la secessione dei ricchi, la fine dell’Italia, altro che la patria come elemento identitario. E la riforma del premierato crea due capi: uno con poteri riconosciuti dalla Carta e uno con poteri dal mandato popolare. Nelle democrazie liberali questo modello non esiste: perché non funziona.
Ma intanto governano e aumentano i consensi.
Alle scorse politiche hanno vinto. Hanno la maggioranza in parlamento. Ma il loro progetto per il paese è la risultante di molte contraddizioni. E quindi il Pd fa bene a essere la forza più unitaria delle opposizioni.
Non per seguire gli schemini delle alleanze, ma perché siamo la forza che di più fa i conti con la necessità di costruire un’alternativa a quest’armata Brancaleone, capace solo di stare insieme malgrado tutto.
È l’opposizione a sembrare l’armata Brancaleone. Il Pd sarà unitario, ma Conte e Calenda no.
È un processo difficile, ma è obbligato. Viviamo il paradosso di avere forze sociali, culturali e politiche che secondo me rappresentano ancora la maggioranza degli italiani. È un punto rilevante. E non dipende tutto dal Pd.
All’opposizione c’è chi pensa di più alle percentuali del proprio partito. Dalla caduta del governo Draghi a oggi.
Confido che gli italiani riconosceranno una leadership a chi assume questa predisposizione unitaria e costruisce un’agenda. Che di fatto già c’è, anche se in mezzo alle polemiche non emerge. Salario minimo, sanità, scuola, ricerca, investimenti.
Nell’elenco manca Ucraina, e forse Palestina. La politica estera vi divide, ma è ineludibile per una coalizione.
Fino alle europee pagheremo un tributo alla corsa proporzionale. Certo, il Pd non può rimettere in discussione tutto. Ma le opposizioni si debbono dotare di un pensiero sulla destra. Ripeto: il Pd si fa carico più di altri di ricercare punti avanzati di incontro.
Ma questo non può annullare un’identità. Una giusta mediazione tra contenuti e progetto unitario l’identità la completa. Ma tutte le opposizioni dovrebbero impegnarsi di più in un comune progetto alternativo alle destre. Altrimenti c’è il rischio di sembrare gente chiusa in una stanza che fa a cazzotti con la luce spenta.
Alle europee del 2019 il suo Pd ha preso il 22,7 per cento. Questo risultato oggi è considerato l’asticella per il successo del Pd.
Sono ottimista. Il risultato si valuta dai punti di partenza. Il giorno dopo la sconfitta delle politiche, si discuteva della fine del Pd e dell’opa per annientarlo. Oggi si discute di costruire l’alternativa alle destre. Al di là degli sgambetti giornalistici, c’è un dato oggettivo: siamo in una fase espansiva. Che dobbiamo portare avanti con contenuti chiari e cultura unitaria.
Lei oggi è presidente della fondazione Demo, quella del Pd. Che ne farà?
A noi non sta bene il livello delle disuguaglianze e dello sviluppo del paese. Alla destra sì, per la destra non esiste l’articolo 3 della Costituzione. Servono politiche per far imboccare alle disuguaglianze una curva negativa. Demo è un luogo collettivo di elaborazione, non solo del Pd, di tutte e di tutti, per cimentarsi con più continuità su questi temi, cioè come dare credibilità alla lotta contro le disuguaglianze.
In un paese forte: se da una parte c’è il calo dei salari, nel 2021 il fatturato del manifatturiero era 1.072 miliardi, il 50 per cento di export. E siamo una potenza industriale. Insomma l’Italia c’è. Ma la destra non costruisce un paese più competitivo e più giusto. E noi non possiamo solo denunciare, dobbiamo costruire politiche. Demo è uno spazio in più per farlo. Mi piace definirlo “l’isola che non c’era”.
Lei si candiderà alle europee?
Ho detto cento volte che io non ho alcun desiderio di candidarmi. E dunque come tutti attendo le scelte del Pd per fare comunque una bella campagna elettorale.
Secondo lei Schlein si deve candidare, anzi pluricandidare?
Con molta franchezza, a questo punto non credo che debba essere un dibattito fatto sulle agenzie e sui giornali. C’è una segretaria e c’è un gruppo dirigente che faranno una proposta. A loro bisogna rimettersi.
Secondo alcuni suoi colleghi, se Schlein si candiderà, si giocherà la segreteria. Lei, che a suo tempo si è dimesso accusando le correnti e anche il gruppo dirigente, sente aria pesante intorno alla segretaria?
Penso di no. Anche perché la storia ha insegnato che ci vuole un limite alla dialettica interna. Errare è umano, perseverare sarebbe diabolico.
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