Matteo Orfini il presidente del Partito democratico dell’era renziana, anche se con Renzi condivideva quasi solo l’idea della centralità del partito. È stato anche reggente del Pd. Oggi, fresco di rielezione alla camera, è diffidente verso la richiesta di rallentare il congresso post disastro. E lancia un allarme: il Pd rischia di innescare la marcia indietro e spaccarsi fra chi vuole il ritorno dell’asse giallorosso e chi guarda verso Renzi e Calenda. Per lui l’unica strada è rifondare il Pd. Vasto programma, però. Che ci spiega. 

Quattro anni fa, dopo il precedente crollo elettorale del Pd, ne ha proposto lo scioglimento. Non è successo. Oggi ripropone la stessa provocazione?

Non era una provocazione allora, anche se riuscì nel capolavoro unico di unire tutto il Pd contro quella proposta. Dico: sciogliamo e rifondiamo il Pd. Già allora era evidente che avremmo dovuto ridefinire il progetto del Pd. Oggi siamo ancora lì: il mondo è cambiato, si è esaurita la spinta espansiva, il Pd è diventato un soggetto respingente. Non basta cambiare gruppo dirigente. Oggi qualcuno in più di allora capisce che o affrontiamo con coraggio un passaggio radicale o ci estinguiamo.

Dal 2007 il Pd ha sempre perso voti e elezioni nazionali. Con quest’ultima, siamo alla quarta sconfitta di fila e alla quarta volta, con segretari molto diversi, che non riesce a mettere insieme uno schieramento che abbia in numeri per governare.

La funzione con cui pensammo il Pd non era quella di mettere insieme un campo, ma di essere il campo.

E allora è peggio: il vostro “campo” in 15 anni è passato dal 32 al 19 per cento.

Abbiamo perso perché abbiamo passato gli ultimi quattro anni a credere che l’unico nostro progetto politico fosse la costruzione del campo largo. Le alleanze sono uno strumento, non un fine. La subalternità del Pd sta nell’aver considerato sé stesso solo nel rapporto con gli altri.

La vocazione maggioritaria, cioè, dice lei, fare del Pd un “campo”, non è stata sconfitta ancora una volta?

Appunto, dobbiamo ridefinire il nostro progetto. Oggi la fluidità dell’elettorato è enorme, ci sono partiti che passano dal 6 al 30 per cento. Anche noi abbiamo ondeggiato fra il 40 per cento e il 18. Quando siamo stati in grado di accendere entusiasmo e presentare un progetto al paese, abbiamo convinto l’opinione pubblica. Ma ormai abbiamo rinunciato; abbiamo pensato che non servisse un progetto ma bastasse l’alchimia delle alleanze. Il risultato è che vince Meloni e noi ci troviamo schiacciati fra Calenda e Conte. Anche la risposta alla sconfitta di alcuni autorevoli esponenti del mio partito tende a riproporre lo stesso errore. Dire che il problema è non aver fatto le alleanze significa a non vedere l’enorme problema di identità che abbiamo. E proporre di fare un congresso fra chi vuole sciogliere il Pd nel contismo e chi nel calendismo. Siamo senza identità e senza progetto, il risultato è che anche quando discutiamo ci dividiamo sugli altri. Attenzione, assecondare questa strada porta alla fine del Pd.

Il Pd non deve decidere se essere un partito che dialoga a sinistra, oppure al centro, posto che evidentemente le due forze che incarnano le due diverse direzioni sono incompatibili?

Messa così è messa male. Il Pd nasce per superare i Ds e la Margherita, e cioè l’idea che ci si dovesse dividere fra un partito di sinistra e uno liberale. Questa idea è da buttare? Per me no.

Quest’idea vi ha portato di sconfitta in sconfitta.

A volte è andata meglio, a volte peggio. Adesso va peggio e per questo il progetto va ridefinito. Qualcuno crede che il progetto sia fallito? Lo dica. Invece nessuno lo esplicita, resta un non detto. Per questo non dobbiamo rallentare la discussione congressuale. Chi parla di una costituente cosa intende in realtà? Che dobbiamo avviarci ad abbracciare il contismo? Io vorrei che prima discutessimo se il M5s è di sinistra e che cos’è la sinistra oggi. Oppure al contrario dobbiamo confluire nel macronismo calendiano? No, dobbiamo mantenere l’ambizione del Pd, rifacendolo da capo.

Come?

Non dico che dobbiamo tornare al Lingotto, perché nel frattempo è cambiato il mondo. Ma non conosco uno solo dei nostri elettori che non ci abbia votato controvoglia, non ce n’è uno che ci ha votato felice. Tutti dicono che il Pd si deve aprire e deve cambiare.

Insisto, cambiare come? Letta ha “aperto” il Pd con le Agorà, ma non ha funzionato.

Le agorà erano convegnistica, anche se le abbiamo raccontate come grandi momenti di partecipazione. Ma tu partecipi se contribuisci ai processi politici. Il Pd all’inizio ha avuto forza perché su un’elaborazione condivisa proponemmo uno strumento di partecipazione come le primarie, che davano la sensazione a chiunque di contribuire alla fondazione del partito. O siamo in grado di attivare meccanismi in cui insieme si ridefinisce la cultura politica e il progetto di un soggetto riformista nell’Italia del 2022, e di smantellare un modello organizzativo che non ha più senso e immaginarne uno più aperto, o il Pd è finito. Diventa un partito dell’establishment, con un gruppo dirigente, di cui faccio parte, che si tutela in una funzione sempre più marginale. Abbiamo ancora il coraggio di credere nel Pd, e di metterlo in discussione, comprese le rendite di posizione? O andiamo avanti a cicli in cui la nuova fase è la negazione di quella precedente?

Non serve un partito del socialismo europeo, come quello spagnolo e tedesco?

Ma noi lo siamo già. Non sappiamo cosa siano i Cinque stelle, ma noi siamo il Pse. Serve una forza radicata nei nuovi conflitti della società, ma è una discussione da fare tutti insieme. A me piace il Psoe, ma non tutti i partiti socialisti europei sono in grande spolvero.

La questione del lavoro è dirimente. Quando Letta ha annunciato il superamento del jobs act, mezzo partito ha storto la bocca. E non è scoppiata la bufera solo perché eravate in campagna elettorale.

Il jobs act è già stato superato. Ma vogliamo costruire una fase nuova sulle divisioni passate? Pensiamo di interpretare il mondo del lavoro candidando due ex segretarie sindacali? Intendiamoci, saranno due straordinarie parlamentari. La sconfitta della precarietà e la sicurezza del lavoro sono temi su cui fondare il nuovo partito. Ragioniamo e ridefiniamo un punto di vista comune, invece di agitare queste differenze su vecchie logiche interne. L’idea del lavoro che hanno i Cinque stelle non è la nostra: per noi è il perno della cittadinanza, non è solo il salario. Il reddito di cittadinanza è sacrosanto, anche se dovrebbe essere fatto meglio, ma non si può ridurre tutto al reddito. Non è mai stata questa l’idea del lavoro della sinistra italiana. Ed è diversa anche da quella di Calenda, che ha un’idea più liberal-liberista. Il Pd nel campo progressista è la forza maggiore. Di fronte a una sconfitta di queste dimensioni o la seppellisci o la rifondi. Gli accordini fra noi non ci salveranno.

Il Pd rischia il declino, o la scissione?

Oppure una rinascita, una rigenerazione. Perché le persone tornino a essere felici di votarci. È possibile, si tratta di avere coraggio e mettersi in discussione. Fare melina no: è vero che non risolveremo tutto con un congresso, e che il balletto delle autocandidature è ridicolo e respingente. Ma il nostro futuro è allinearci al grillismo o al calendismo, o rilanciare la funzione del Pd? Su questo va fatto il congresso subito, perché chi lo vince abbia un mandato chiaro in una delle tre direzioni. Le elezioni politiche sono fra cinque anni, lasciamo i territori liberi dai condizionamenti nazionali per fare le alleanze più larghe alle amministrative. In parlamento faremo opposizione. Ma oggi dobbiamo decidere cos’è il Pd, non con chi si allea.

Una proposta politica è una proposta di governo, quindi di un sistema di alleanze. Se no si rischia la testimonianza.

No, la Lega e Meloni, hanno puntato sulla propria identità, al di là dell’alleanza. Perché per noi deve essere impossibile? Avverto: Conte e Calenda puntano su questo, per farci diventare irrilevanti.

Quando chiede l’“apertura” del Pd, pensa a Elly Schlein segretaria?

Sono felicissimo che Elly abbia combattuto nella nostra lista, e portato la sua carica, e che di fatto il nostro ticket sia stato Letta-Schlein. Ma non è finita benissimo perché un nome non è risolutivo. Ed è un nostro errore tipico: pensare che il leader di turno risolva i problemi. La prima a dirlo è Elly.

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