Dopo due giorni di camera di consiglio i giudici costituzionali hanno già deciso. La riforma infrange il principio per cui la potestà legislativa spetta al parlamento ed è incostituzionale «la facoltatività, piuttosto che la doverosità, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica»
La riforma dell’autonomia è piena di vuoti, la Corte costituzionale li ha indicati e «spetta al parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmarli». Sono bastati appena due giorni di camera di consiglio ai giudici della Consulta per decidere, come da pronostico della vigilia, la parziale incostituzionalità della riforma dell’Autonomia differenziata, smontando di fatto la legge baluardo della Lega e creando un problema non di poco conto al governo.
In attesa del deposito della sentenza, tutti i punti critici sono stati elencati in un articolato comunicato stampa che non lascia spazio a fraintendimenti quanto al fatto che l’impianto riformatore sia sostanzialmente da reimpostare.
La Corte, infatti, ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge, ma sono state considerate «illegittime specifiche disposizioni dello stesso testo legislativo» in relazione all’articolo 116 terzo comma della Costituzione, che disciplina l’attribuzione dell’autonomia alle regioni ordinarie e riconosce, insieme al ruolo delle regioni «i principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio».
E proprio il principio di «sussidiarietà» che regola la distribuzione delle funzioni tra stato e regioni viene violato da alcuni profili della legge Calderoli. Profili tutt’altro che secondari. L’incostituzionalità, infatti, riguarda l’intesa tra stato e regioni che – come specifica la Corte – deve «riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamato principio di sussidiarietà».
Il ruolo del parlamento
Incostituzionale è anche il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) concernenti i diritti civili e sociali. Proprio questo è il punto più delicato e l’errore della legge più macroscopico. La legge, scrive nel suo comunicato la Consulta, è «priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del governo, limitando il ruolo costituzionale del parlamento».
In altre parole, la riforma dell’autonomia infrange anche il principio per cui la potestà legislativa spetta al parlamento. Tanto che a essere dichiarate incostituzionali sono anche «la previsione che sia un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri a determinare l’aggiornamento dei Lep», «il ricorso alla procedura della legge di Bilancio per il 2023 per la determinazione dei Lep» e «la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito».
Anche nel successivo passaggio in cui la Corte fornisce l’interpretazione costituzionalmente orientata di altre previsioni della legge il filo conduttore è uno: correggere l’assetto di una riforma che devolve al governo e non al parlamento ogni aspetto legato alla concessione dell’autonomia. In particolare, impone che l’iniziativa legislativa «non vada intesa come riservata unicamente al governo» e l’intesa tra stato e regione «implica il potere di emendamento delle Camere».
Gli errori nei Lep
La decisione della Consulta, infine, dà ragione a chi temeva che l’autonomia leghista creasse sbilanciamenti tra regioni.
La Corte, infatti, ha ritenuto fuori dal canone costituzionale anche «la facoltatività, piuttosto che la doverosità del concorso agli obiettivi di finanza pubblica» per le regioni che hanno chiesto l’autonomia, perché in questo modo si verifica un «indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica».
Sui Lep, l’intervento di interpretazione costituzionalmente orientato della Consulta è tranciante: nel caso delle materie qualificate come non Lep, «i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», ma soprattutto l’individuazione delle risorse per le funzioni trasferite «dovrà avvenire non sulla base della spesa storica, bensì prendendo a riferimento costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza, liberando risorse da mantenere in capo allo stato per la copertura delle spese che, nonostante la devoluzione, restano comunque a carico dello stesso».
Gli effetti politici
Il risultato di questa decisione, dunque, è quello di riaprire il buco nero dell’autonomia, la cui approvazione era arrivata con fatica e con più di qualche mugugno da parte di Forza Italia – che mai ha nascosto le sue perplessità – e anche di FdI. La sconfitta di Matteo Salvini, che tanto ha puntato su questo provvedimento, appare netta. E forse Antonio Tajani e Giorgia Meloni non sono poi così tristi.
In ogni caso la maggioranza torna al punto di partenza: l’aula del parlamento, che dovrà colmare i vuoti «derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle ricorrenti». Con un doppio effetto. Con tutta probabilità la Cassazione – al cui vaglio sono le firme per il referendum contro la legge – potrà decidere di considerare il quesito referendario superato dalle modifiche imposte dalla Consulta.
Esultano le opposizioni, che celebrano la «sconfitta» del governo. Beppe Provenzano (Pd), chiede che Calderoli «vada a casa». Elly Schlein invita Meloni e Salvini a «rileggere insieme la Costituzione». Italia viva invoca il referendum per cancellare «definitivamente» la riforma. Anche la chiesa, da sempre critica nei confronti della legge, commenta la notizia con il segretario di Stato, Pietro Parolin, che sottolinea: «Se questa decisione va a beneficio della comunità nazionale e soprattutto delle parti più deboli e vulnerabili, bene».
Nella maggioranza si prova a spostare l’attenzione sul fatto che la Corte ha comunque ritenuto «non fondata» la questione di costituzionalità dell’intera legge. Per la Lega i rilievi sono «facilmente superabili in parlamento». Ma Roberto Occhiuto, presidente azzurro della Calabria, non si nasconde: «Avevo suggerito al governo un surplus di riflessione e una moratoria sull’Autonomia differenziata. Oggi la moratoria, con molta più autorevolezza del sottoscritto, la impone la Corte costituzionale».
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