Sugli stranieri che lavorano nei campi pesano tutte le disfunzionalità del sistema agricolo italiano. «Sono tendenti alla depressione, hanno ansia continua, che porta all’abuso di sostanze»
Il Rivotril è un potente ansiolitico, può essere usato anche per trattare gravi sindromi da stress post-traumatico. Questo farmaco sta diventando una delle sostanze più spacciate e consumate, fuori da ogni controllo medico, negli insediamenti informali – sarebbe più accurato definirli campi profughi – dove alloggiano i braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro. In Calabria sta per cominciare la stagione della raccolta degli agrumi e l’abuso di Rivotril è un indizio di come sta evolvendo l’emergenza cronica dell’agricoltura italiana: una crisi di salute mentale tra le persone stranieri che lavorano i campi. La tendopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, è l’insediamento più grande dell’area, a regime accoglierà quasi un migliaio di lavoratori, sulle tende si legge ancora il logo sbiadito del ministero dell’Interno, anche se ormai qui non c’è più nessuna vera presenza pubblica.
Nel 2019, con Matteo Salvini ministro e Giuseppe Conte premier, fu sgomberato un insediamento molto più grande e consolidato, con la promessa di cambiare tutto e portare legalità e controllo. Niente di tutto questo è successo, da allora è stato tutto un rincorrere l’emergenza: quando ci sono soldi e bandi, vengono fatti partire dei progetti. Quando i soldi finiscono, i progetti vengono abbandonati e i braccianti devono tornare a cavarsela da soli, in un continuo elastico tra assistenzialismo e abbandono.
Nella tendopoli
Il nuovo accampamento si è formato così: oggi è un groviglio di cavi scoperti, fiamme libere per cucinare, galli e capre allo stato brado, nessuna raccolta rifiuti, allacci elettrici abusivi ed esseri umani che in generale non ne possono più. La tendopoli è diventata è una specie di cittadella della sindrome da stress post-traumatico. Gli operatori di Emergency, che da anni fanno da presidio sanitario e supplenza dello stato nell’area, segnalano che la salute mentale sta diventando uno dei principali problemi sanitari della tendopoli, anche perché è il più difficile da trattare.
«La crisi del settore agricolo, la riconversione dei suoli da arance a kiwi, l’onda lunga dei decreti sicurezza, la pandemia, il cambiamento climatico che ha accorciato la stagione di raccolta. Sono tutti problemi che esplodono sulla vita e nella psiche dei lavoratori», spiega Mauro Destefano, uno degli operatori di Emergency.
I braccianti sono sull’orlo di, e spesso oltre, una crisi di nervi irrecuperabile, perché su di loro si sono scaricate tutte le disfunzionalità economiche e sociali del sistema agricolo italiano. Parlano da soli, si isolano, smettono di comunicare con le famiglie nei paesi di origine, fanno incubi continui, non dormono più, abusano delle sostanze che riescono a procurarsi, a volte smettono di lavorare, perché non sono più in grado di farlo.
«La notte la gente non fa che urlare, spesso manca la corrente, sento i topi camminarmi addosso», dice Mamma Ceesay, che è arrivato dal Gambia col sogno di fare il decoratore di interni, ha il viso gentile e allungato, prepara il tè con un braccio ancora rigido per l’incidente in bici che quasi lo ha ucciso, un mese fa.
A questi problemi si incrocia il fatto, ancora sottovalutato, che i braccianti stanno invecchiando a fare questo lavoro, non è raro incontrarne cinquantenni o sessantenni, acciaccati o del tutto rotti dopo decenni di lavoro nei campi in queste condizioni. Jean Michel Guhei viene dalla Costa d’Avorio, ha 65 anni. Josef Kwadwo ne ha 57, viene dal Ghana. Entrambi zoppicano, si stanno riprendendo da guai fisici seri (Kwadwo addirittura un trauma spinale per una caduta), non riescono a trovare lavoro in modo continuativo, non sanno né come andare avanti, né come tornare indietro. Come spiega Destefano, «fare il bracciante è il fallimento della migrazione, di tutti i progetti e gli investimenti umani che a essa erano collegati, è qualcosa di difficile da elaborare».
L’isolamento
A questo si collega a uno dei principali fattori scatenanti dell’emergenza psichiatrica dei braccianti: l’isolamento. Smettono di chiamare casa, smettono di rispondere, spariscono, perché non sanno come raccontare a genitori, parenti, mogli, figli cosa gli sta succedendo in Italia.
«Diventano chiusi, sprofondano in sé stessi, vivono una vera e propria destrutturazione della personalità e di tutto il carico di speranza con cui erano arrivati qui», spiega Francesco Lando, psicoterapeuta di Rosarno che, in assenza di un presidio pubblico, per anni ha portato assistenza psicologica ai braccianti come volontario.
«Senza feedback positivo c’è un vero e proprio degrado della personalità, qui sono tutti tendenti alla depressione, hanno ansia continua, che porta all’abuso di sostanze, in particolare il Rivotril, e ai disturbi sonno-veglia. Il fatto è che non dormono più se non prendono farmaci. È come se degrado esterno e interno si saldassero, si sentono dei fantasmi, si chiedono: ma chi sono io? E non riescono più a darsi una risposta».
LamortediSinghStretta securitaria
Questa è anche l’eredità dei decreti sicurezza del 2019 e della stretta securitaria. I braccianti si trovano in una zona grigia di rinnovi dei permessi di soggiorno sempre più difficili, arbitrari, imprevedibili, con tutte le difficoltà che seguono per l’accesso ai diritti più basilari e a una prospettiva di vita più stabile.
Lasaba Brubelly ha i documenti in regola, ma spiega che ottenerli è stata la parte più difficile della sua esperienza in Italia, più della tendopoli o dello sfruttamento, perché propedeutica a entrambi: «La burocrazia qui uccide le persone, perché ti porta alla follia, non capisci mai perché succedono le cose, perché non succedono, perché devi aspettare».
Ousmane Thiam fa il mediatore culturale per Emergency in Calabria, ma ha avuto un percorso simile a tanti dei braccianti che aiuta ogni giorno, è stato lavoratore nei campi, sono stati gli anni più duri della sua vita, ha sofferto la fame, la paura, l’umiliazione per come i lavoratori agricoli stranieri vengono trattati in Italia. «Per anni continuavo a chiedermi una cosa: è questa l’Europa per cui ho fatto tutto questo?».
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