- Lo stile piano e corretto assunto da Meloni cela la sua demagogia. Un esempio per tutti: la questione dell’Europa. Nessun partito che si candida a governare può seriamente giocare all’euroscetticismo. Neppure i sovranisti.
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La battuta che Meloni sfodera nelle piazze mediatiche e non, difficilmente traducibile nelle altre lingue europee, è questa: la «pacchia è finita». Appena Fratelli d’Italia e i suoi alleati entreranno nella stanza dei bottoni a Roma metteranno sull’attenti l’Unione europea.
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Ma perché Roma ha bisogno di un governo di sovranisti che battono i pugni sul tavolo?
Sembra che tutti, politici e opinionisti, si siano accomodati sul divano della vittoria della destra. I sondaggi hanno fanno un lavoro egregio per togliere al voto il potere della sorpresa. I cittadini ratificheranno quel che i sondaggi dicono. Nella democrazia dell’audience, la sovranità vola dal voto alle preferenze dichiarate ai tecnici pagati del sondaggio. In futuro si potrà forse evitare di scomodare gli elettori.
A questo clima di fatale predeterminazione contribuiscono anche i leader. Il confronto organizzato dal Corriere della Sera tra Enrico Letta e Giorgia Meloni, che il direttore Stefano Feltri ha impietosamente analizzato, merita una coda di riflessione.
Lo stile piano e corretto dei due leader cela la demagogia della leader di Fratelli d’Italia. Un esempio per tutti: la questione dell’Europa. Un tema centrale, anche per la quantità di denaro targato Pnrr che dobbiamo in larga parte restituire. Nessun partito che si candida a governare può seriamente giocare all’euroscetticismo. Neppure i sovranisti.
Ma, non facciamoci ingannare. Il modo di presentare il ruolo dell’Unione fa tutta la differenza. Non basta dirsi europeisti.
Ha scritto Virginio Dastoli, presidente del Consiglio Italiano del Movimento europeo, che Meloni (la quale presiede in Europa un partito-ossimoro nello stesso tempo conservatore e riformista) «ha costruito per sé e per i suoi elettori un’immagine deformata dell’Unione europea basata sull’errata convinzione che il confronto o il conflitto fra apparenti interessi nazionali in un sistema prevalentemente confederale gioverà all’economia italiana e ampi spazi di manovra per il futuro governo di destra».
È in questo contesto sovranista che Meloni ingaggia una polemica con l’Unione trattandola per quel che non è: una confederazione (la giusta insistenza di Letta sulla procedura di decisione consensuale è troppo tecnica per riuscire a scuotere i non esperti).
La battuta che Meloni sfodera nelle piazze mediatiche e non, difficilmente traducibile nelle altre lingue europee, è questa: la «pacchia è finita». Appena Fratelli d’Italia e i suoi alleati entreranno nella stanza dei bottoni a Roma metteranno sull’attenti l’Unione europea.
Ci aspettiamo che Meloni batta i pugni sul tavolo per affermare “l’orgoglio nazionale” e chiedere... quel che ha già chiesto il Portogallo: allungare la scadenza della Recovery and Resilience Facility oltre il 2026 per quanto riguarda gli investimenti, alla luce dell’alta inflazione dovuta alla crisi energetica.
La proposta è stata giudicata interessante dalla Ue, non perché il Portogallo ha un governo socialista come ha detto Meloni, ma perché ha un fondo di legittimità. Il Portogallo ha lavorato con serietà senza roboanti proclami sovranisti. Perché Roma ha bisogno di un governo di sovranisti che battono i pugni sul tavolo?
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