Dopo aver occupato con le poltrone dei direttori di Rai, Biennale e musei, serviranno i contenuti. Ma scrittori, architetti, registi non votano Meloni. Il dominio del Pci e l’indifferenza di Berlusconi
Quando saranno finite le manovre intorno alle poltrone e pure tutte le poltrone, allora verrà il momento della consapevolezza, la scoperta che un’egemonia culturale si fa con la cultura. A riempire le caselle ci vuole un attimo, a fare lo spoils system due, perché alla fine c’è sempre un amico che viene a chiederti una mano. Ma ci siamo, ci siamo quasi, ancora qualche giorno di pazienza.
Il MAXXI è stato occupato da Alessandro Giuli sei mesi fa, nella Rai di Sergio e Rossi la farandola dei ruoli sta per arrivare ai suoi accenti finali con le nomine dei direttori ai Tg, resta ancora qualche spigolo da smussare e prima o poi sarà trovata una soluzione anche per la Biennale di Venezia, dove Roberto Cicutto ha portato la Mostra internazionale d’arte al record di visitatori nella storia, ma che fa, che cosa conta, c’è una virile stretta di mano che attende chi verrà al suo posto.
Qualcuno spende il nome dello storico Giordano Bruno Guerri, qualcun altro spinge per il giornalista Pietrangelo Buttafuoco. Ma non è questo il punto, adesso. Il punto è distinguere tra la gestione dei posti e la creazione dei contenuti. Verrà allora il momento della scoperta che se vuoi fare l’egemonia culturale al Salone dei libri o alla Ca’ Giustinian di Venezia, sta’ a vedere che avrai bisogno di scrittori, di architetti, di registi.
L’invidia del pene
Va a finire sempre così, quando dalle urne emerge una maggioranza che si muove nel campo opposto alla sinistra, un campo dove si è cementato nel tempo un complesso di inferiorità verso Gramsci e quella sua vecchia idea di battere la borghesia prima coi libri e poi coi voti. Questo era il piano per la presa del potere del proletariato, così nasce il concetto di egemonia culturale, ogni tanto lo dimentichiamo. Se è la classe dirigente a imporre l'ideologia dominante, allora lo schema andava capovolto, rigettando i suoi valori, a partire dal nazionalismo e dal consumismo. Era un lavoro sporco, e dovevano farlo gli intellettuali. Parlando alle campagne.
Succede invece, dall’altra parte, di vincere le elezioni, guardarsi attorno e scovare al massimo dei generali bravi ad amministrare fondi, ci fosse uno che sa scrivere una sceneggiatura. Finisce che si incontrano nei board, fanno le loro riunioni, riempiono di nomi qualche cella nei fogli Excel, ma poi s’accorgono che egemonia significa preminenza, che sia riconosciuta o imposta. Servono le truppe, non solo i generali. Panico. Oddio, e noi chi abbiamo? Ecco perché nei totonomi spulciati nell’arco dei decenni, al posto di Marcello Veneziani c’è Marcello Veneziani, mentre nelle giovanili si scaldava Angelo Mellone, e si sa come va a finire coi giovani quando si scaldano anni e anni.
Finché l’egemonia era un concetto gramsciano, prendeva la sua rincorsa dagli scranni dell’opposizione politica per scalare il cielo e promettere il sol dell’avvenire. Ora al massimo assume dentro la maggioranza la grottesca somiglianza di quel concetto freudiano che va sotto l’etichetta di invidia del pene. Che poi. A guardarla bene da vicino, la famosa egemonia della sinistra non sembra aver fatto il suo lavoro in modo perentorio.
È assai strano un regime culturale che non ha prodotto successi politici. Il catalogo Einaudi dagli Anni 50 in avanti era la prova inconfutabile della sua esistenza, solo che l’Italia e gli italiani furono fatti dalla Rai, e la Rai era fatta da Ettore Bernabei. Nelle aule delle scuole elementari si recitavano le preghiere. Se c’era Peppone, c’era pure Don Camillo. Se Pasolini firmava un episodio di La Rabbia, l’altro era di Guareschi.
Un perenne cortocircuito
Tutte le forze nel campo opposto alla sinistra hanno patito quello che veniva chiamato l’assedio dell’intellighenzia. Ai suoi bei tempi, Renato Brunetta la chiamò l’oligarchia dei parassiti, una nomenklatura elitaria e snob incapace di mettersi in sintonia con le masse al voto, mentre di là si discuteva di élite e popolo, di popolo e masse. Poi le masse al voto non ci sono andate più e neppure la gente al cinema, in libreria. Le elezioni adesso si vincono con 7 milioni di voti, quarant’anni fa bastavano al massimo per essere il terzo partito.
È certamente esistita una egemonia un po’ ottusa dentro il Pci di Togliatti, ma nell’alveo che chiamiamo sinistra esisteva anche la capacità di un Moravia di stroncare Pasolini, in una contrapposizione di mondi raccontata benissimo da Francesco Piccolo nel suo recente La bella confusione [Einaudi], storia della rivalità tra Federico Fellini e Luchino Visconti. Scelba lo chiamava culturame. La Dc mandava Piero Regnoli alla Mostra di Venezia per impedire che vincesse Senso. Questo eravamo, e adesso?
L’Italia si avvita da mezzo secolo in un cortocircuito nel quale chi parla di egemonia non ne ha. Chi ce l’aveva, l’ha persa. Chi è stato egemone per vent’anni, della cultura non si è curato. Tremonti lo sapeva: con la cultura non si mangia. Silvio Berlusconi puntò a un’altra cosa, alla costruzione di un immaginario, alla spinta costante della sua macchina della persuasione. Se fosse stato al governo durante il covid, ci avrebbe convinto che chiudersi in casa era una sorte magnifica, non avremmo perso neppure un minuto di Barbara D’Urso.
A meno che l’egemonia di cui parla questa destra non sia solo fastidio per la circolazione delle cartoline altrui, tipo Benigni che legge la Costituzione e Fedez che bacia Rosa Chemical, ignorando che la preminenza delle idee non passa più dalla politica ma da Change, dalle storie Instagram, da TikTok. Alternative? È una parola. Per andare oltre Tolkien, Casa Pound ogni tanto prende in prestito De André. A dirigere il Salone del Libro del resto dovranno chiamare una indipendente come Annalena Benini. Un Fazio di destra non lo trovano, quasi quasi ingaggiano Cattelan, chi lo chiama, vediamo se la domenica è libero. Di certo come farà la ghigliottina Pino Insegno, vedrete, Flavio Insinna se lo sogna.
© Riproduzione riservata