Dall’inizio della legislatura i partiti di maggioranza hanno ignorato la regolamentazione del rapporto con i lobbisti. Tante le proposte delle opposizioni, ma Lega e Fratelli d’Italia hanno fatto melina con un’indagine conoscitiva alla Camera
Un altro anno è passato e l’Italia ancora attende una legge per regolamentare le lobby. Gli scandali si accatastano e la politica fa spallucce, con la destra che ha affossato ogni ipotesi di introduzione di una norma. Adesso il sistema Verdini e il caso degli appalti Anas fanno riaccendere la spia rossa sui rapporti tra la politica e l’imprenditoria. Le vicende giudiziarie dovranno seguire il loro corso. Fratelli d’Italia, dopo il silenzio iniziale, ha assunto una posizione di difesa d’ufficio del ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini: «Non è coinvolto». Il leader della Lega, da parte sua, non è intenzionato a riferire in parlamento di fatti che riguardano il proprio dicastero, coinvolgendo la famiglia della sua compagna, Francesca Verdini.
Ma non c’è bisogno di un accertamento dei giudici sulla commistione tra politica e affari. Senza che in parlamento ci sia una risposta. Qualche giorno fa, il senatore di Fdi, Andrea De Priamo, ha detto a La Repubblica che la vicenda Verdini deve «essere uno spunto per intervenire e regolamentare meglio i rapporti tra lobby e parlamentari». La partita dovrebbe passare al centro studi del partito di Meloni, che vede come punto di riferimento il deputato (vicinissimo alla presidente del Consiglio), Francesco Filini.
Ma siamo al capitolo delle buone – e probabili – intenzioni. A oggi, infatti, la destra non ha fatto nulla per rendere più trasparenti i processi decisionali. Da Fdi, Forza Italia e Lega nessuno ha mosso un dito. È stato trovato tempo e modo per architettare la riforma della legge sulla caccia e pensare di dare i fucili ai 16enni. Un’idea poi sospesa per volere del ministro Lollobrigida, ma non è stato avanzato uno straccio di ipotesi sul regolamento dei rapporti con i portatori di interessi, i lobbisti.
Proposte di legge
Gli stimoli non sono mancati dalle opposizioni. Dall’insediamento del parlamento, sono arrivate numerose proposte di legge delle opposizioni, dal Movimento 5 stelle al Partito democratico, passando per Italia viva: anche il partito di Matteo Renzi ha depositato un testo, firmato dalla senatrice Silvia Fregolent sul modello europeo, che ha mostrato qualche crepa con il Qatargate. Un’inchiesta che ha tuttavia riguardato la dimensione della corruzione: quello dell’Ue resta un esempio di come poter regolamentare il rapporto con le lobby.
Nei giorni scorsi il leader di Azione, Carlo Calenda, ha annunciato un’altra iniziativa parlamentare del suo partito. L’intento è di intervenire su più livelli. Sul piano governativo vuole introdurre «l’agenda degli incontri di ministri, sottosegretari e dg con portatori di interesse, pubblicata a due mesi di distanza massimo dall’incontro» e gli «incontri fuori ministero vietati per la struttura tecnica a meno di specifica autorizzazione». Insomma, se manca una legge i responsabili sono da individuare nell’attuale maggioranza.
Certo, alla Camera è partita un’indagine conoscitiva in commissione affari costituzionali, per volere del presidente Nazario Pagano (Forza Italia). L’obiettivo iniziale era di arrivare a un testo condiviso entro la fine del 2023. Ci sono stati incontri di esperti, l’organizzazione di uno specifico tavolo. Il percorso formalmente va avanti, quindi, sotto la spinta di Pagano. Ma ci si muove ancora sul piano delle audizioni. I tempi si allungano, e come preventivato, l’indagine si è trasformata nello lo strumento per fare melina.
I modelli, oltre a quello dell’Ue, sono già a disposizione negli altri paesi europei. La Germania è intervenuta già nel 1972 nella regolamentazione dei rapporti tra lobbisti e parlamentari, che traccia addirittura quanto avviene nelle Parlamentarische abende (serate parlamentari). Sono riunioni informali che avvengono tra deputati, ministri e rappresentanti delle lobby, organizzate nel corso delle sessioni parlamentari. Lo scopo è quello di agevolare lo scambio di informazioni fra politici ed esperti sui temi più svariati. Il tutto alla luce del sole.
In Francia, dal 2013 (rivisto nel 2016), è in vigore un codice di condotta che monitora e registra puntualmente l’attività dei portatori di interessi. In Italia c’è attualmente solo un registro, istituito a Montecitorio sotto la presidenza di Roberto Fico, che però negli anni ha tracciato poche decine di incontri. Significa che l’attività di lobbying avviene altrove e senza la necessaria trasparenza. Ancora peggio va al Senato dove non esiste alcuno strumento, nemmeno di facciata. Sul lato governativo è la stessa musica: simbolico il caso del registro degli stakeholder, istituito al ministero dell’Ambiente con Sergio Costa, e che poi è stato stoppato. Prima per ragioni di privacy e poi lasciato decadere così. Oggi la pagina web viene definita «in costruzione».
Stop alla legge
Eppure, la questione ha appassionato molto il parlamento, negli anni. Da quando è nata la Repubblica sono state depositate oltre 100 proposte di legge. Puntualmente ammuffite nei cassetti di Camera e Senato. Nella scorsa legislatura il traguardo si era avvicinato con l’approvazione, in prima lettura, di un testo a Montecitorio. Il passaggio a Palazzo Madama si è rivelato un pantano, nonostante ci fosse un sostanziale accordo. Almeno a parole. Perché la destra ha trovato cavilli, ha dilatato i tempi.
E si è innescato così un cortocircuito singolare: i lobbisti delle società di relazioni istituzionali chiedono una normativa. Per dare una cornice alla loro professione, evitando che avventurosi faccendieri possano travestirsi da lobbisti o ex parlamentari, al termine del mandato, diventino interlocutori dei loro colleghi per conto di aziende. A danno della categoria. Inoltre «nell’assenza di regole, i nostri rappresentanti politici e i funzionari pubblici si sottraggono all’obbligo di ascoltare tutte le voci in campo», osserva con Domani il direttore di The good lobby, Federico Anghelè, che sta portando avanti da tempo una campagna per una legge.
Intanto le parole evaporano e la norma non si vede. Lasciando intatto il far west legislativo che favorisce le opacità che stanno emergendo dall’inchiesta sugli appalti dell’Anas.
© Riproduzione riservata