- Chi glielo fa fare a Giorgia Meloni di imboccare quel sentiero accidentato della riforma costituzionale avendo memoria del prezzo pagato da quanti hanno sfidato la sorte, e i numeri, sullo stesso terreno?
- Rispetto a tutti i precedenti questa stagione di riforme, ammesso veda la luce, ha una particolarità unica. Per la prima volta a reggere il timone del processo c’è la sola cultura politica rimasta estranea alla stesura della Costituzione e al patto repubblicano. Per la destra è qualcosa che ha un valore politico e simbolico enorme. Per tutti gli altri si rivela un passaggio delicatissimo e assai rischioso.
- Se il metodo studiato e offerto da palazzo Chigi si riassume nel lodo, «cambieremo la forma di governo parlamentare con o senza di voi perché abbiamo il mandato popolare a farlo» sarà dovere delle opposizioni dichiarare sul punto lo scontro più duro fuori e dentro le aule parlamentari negando l’esistenza stessa di quel mandato avendo la destra raccolto il consenso di un quarto, poco più, dell’elettorato complessivo.
Ma chi glielo fa fare? A Giorgia Meloni intendo. Chi glielo fa fare di imboccare quel sentiero accidentato della riforma costituzionale avendo memoria del prezzo pagato da quanti hanno sfidato la sorte, e i numeri, sullo stesso terreno?
Da ultimo era toccato a Matteo Renzi congedarsi da palazzo Chigi dopo l’esito del referendum che lo aveva bocciato senza riserve. Ora, davvero si può pensare che sette anni più tardi la spinta a rimettersi in gioco sulla stessa materia sia un deficit di efficienza e funzionamento della macchina governativa? Una tesi diversa piega verso la classica arma di distrazione.
Il governo sarebbe alle prese con tanti e tali ritardi, dal Pnrr ai buchi della sanità sino a una gestione sciagurata del capitolo migranti, da ritenere conveniente spostare l’attenzione altrove. E qui può darsi vi sia del vero. Come pare credibile, alla luce delle divisioni nella maggioranza, l’imporsi di uno scambio. Da una parte l’autonomia differenziata cara alla Lega, dall’altro la bandiera del presidenzialismo, marchio dei Fratelli d’Italia, da sventolare a favore di telecamera.
Tutto possibile. Ma forse la ragione ultima dell’accelerazione di questi giorni è ancora un’altra e a svelarla non servono ricostruzioni o retroscena perché lo stesso capo del governo l’ha tracciata nei contorni e nella sostanza in un passaggio centrale del discorso d’insediamento alle camere.
La prima volta
Mettiamola così. Rispetto a tutti i precedenti questa stagione di riforme, ammesso veda la luce, ha una particolarità unica. Per la prima volta a reggere il timone del processo c’è la sola cultura politica rimasta estranea alla stesura della Costituzione e al patto repubblicano. Per la destra è qualcosa che ha un valore politico e simbolico enorme. Per tutti gli altri si rivela un passaggio delicatissimo e assai rischioso.
Ezio Mauro lo ha spiegato col pericolo che possano saltare «tutte le eredità a fondamento della democrazia repubblicana». Intendeva l’antifascismo come “religione civile” e l’intesa tra le forze costituenti in una frattura del percorso conosciuto dal nostro assetto istituzionale. Se le cose stanno così c’è qualcosa che va oltre il merito delle proposte e persino al di là del posizionamento delle singole sigle. Nel senso che la prima valutazione è sul senso politico dell’iniziativa.
L’impressione è che su questo terreno – quale altro se no? – il partito di Meloni voglia fondare quella egemonia culturale che non transita certo dall’arruolamento dell’Alighieri al pensiero reazionario (sic) mentre può trovare nell’assetto dello stato, e in una diversa gerarchia dei poteri al suo interno, la legittimazione che in settantacinque anni quella cultura non ha mai ottenuto.
Se di questo si tratta è chiaro come l’intera sequenza di gaffe e provocazioni disseminate negli ultimi mesi – valga per tutte la «banda di pensionati» in via Rasella, copyright la seconda carica dello stato – erano dettagli a fronte dell’ambizione di archiviare nella forma più solenne la pagina della Repubblica fondata sull’antifascismo per consacrare nuovi costituenti gli eredi dell’identità contro la quale la nostra Carta è stata conquistata e scritta.
Come reagire
Allora come reagire? In primo luogo fissando alcuni paletti invalicabili. Se il metodo studiato e offerto da palazzo Chigi si riassume nel lodo, «cambieremo la forma di governo parlamentare con o senza di voi perché abbiamo il mandato popolare a farlo» sarà dovere delle opposizioni dichiarare sul punto lo scontro più duro fuori e dentro le aule parlamentari negando l’esistenza stessa di quel mandato avendo la destra raccolto il consenso di un quarto, poco più, dell’elettorato complessivo.
Il punto è che il governo non può sequestrare la Costituzione e chi ha provato a farlo ne ha pagato il prezzo. Quanto al merito, di riforme è legittimo discutere, nel caso delle opposizioni incalzando la maggioranza con proposte e scenari. Ma in questo caso la condizione dev’essere chiara: a quel tavolo ci si siede se la maggioranza accetta di discutere l’assetto complessivo del sistema che da una condivisione e mediazione serie potrebbe uscire.
Significa fermare il convoglio di una autonomia differenziata destinata a spaccare ulteriormente il paese, aprire il dossier della legge elettorale, riflettere sulla sfiducia costruttiva e il voto a data certa per i provvedimenti del governo in modo da sanare almeno in parte l’abuso della decretazione, bloccare ogni tentativo di sopprimere il ballottaggio nel voto dei comuni, licenziare una legge attuativa dell’articolo 49 su natura e ruolo dei partiti così da ricostruire un sistema politico degno del nome. C’è la volontà di aprire questo cantiere? A osservare le mosse incardinate sinora è logico dubitarne.
Quel che la destra – questa destra infatuata di un potere che mai aveva avuto – deve sapere è che con meno di questo si troverà dinanzi un fronte larghissimo pronto a difendere la storia e i valori che dopo la stagione più buia hanno restituito all’Italia libertà, diritti e democrazia.
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