Nel discorso con cui ha giurato come capo del governo per il suo quarto mandato consecutivo, Viktor Orbán ha prospettato per i popoli europei «un decennio di pericolo, incertezza e guerra». Ma in questo scenario, ha continuato, Bruxelles e l’occidente appaiono in preda a una «debolezza spirituale» che induce al «suicidio».

Tra i segnali più clamorosi di questa tendenza vi sono il programma di «grande sostituzione» dei popoli, mirato a rimpiazzare i «bambini cristiani» che non nascono più con i migranti, la «follia del gender», che vede l’individuo come creatore della propria identità sessuale, e il programma «liberale» che «pretende di fare a meno degli stati-nazione e del cristianesimo».

Si tratta di una sintesi efficace di alcuni temi e parole chiave che compongono l’apparato discorsivo in uso nella destra radicale populista, offerta da quello che è forse il leader politicamente e retoricamente più raffinato in questo panorama: la patria e la difesa dei confini sovrani; la famiglia e i valori cristiano-tradizionali; e il concetto di libertà, impiegato in modo semanticamente ambiguo.

Patria

Le prime due parole, patria e famiglia, ricorrono spesso come parte di uno stesso discorso, al cuore del quale si trova il richiamo a un ordine presunto «naturale» da difendere e restaurare. Un ordine che ha un versante esterno nei confini solidi che separano gli stati nazione, e uno interno nelle gerarchie sociali, di genere, sessuali.

«Patrioti» sono, nelle parole di Giorgia Meloni, di Marine Le Pen o di Donald Trump, non solo coloro che hanno a cuore il destino della nazione e ne difendono i confini, ma anche i paladini dei valori religiosi, comunitari e familiari. 

Nella narrativa della destra radicale populista, un «popolo» inteso come ethnos, fondato sulla discendenza o sulla cultura e religione comune, reclama il diritto di decidere chi può entrare nel territorio dello stato e a quali condizioni, ma ambisce anche a far valere la forza della tradizione contro le pretese del riformismo sociale che minacciano la famiglia come «unità fondamentale» della nazione.

Entrambi i versanti di questo disegno politico appaiono essenziali nella battaglia condotta in nome dell’«identità». L’ordine dei generi, la nazionalità, i ruoli familiari, la religione, sono tutte dimensioni messe a repentaglio dalle forze «globaliste» e dalle élite cosmopolite, che oltre a favorire l’immigrazione di massa corrompono la cultura tradizionale della nazione.

Da qui anche l’atto di accusa all’Unione europea da parte dei cosiddetti «sovranisti», critici verso il processo di integrazione sovranazionale. L’«Europa delle nazioni» dovrebbe basarsi «sulle tradizioni, il rispetto della cultura e della storia degli Stati europei, sul rispetto dell’eredità giudaico-cristiana dell’Europa e sui valori comuni», si legge nella dichiarazione comune firmata a luglio 2021 dai leader di sedici partiti dell’ultradestra, tra cui Le Pen, Orbán, Jarosław Kaczyński, Matteo Salvini, Meloni, Santiago Abascal.

È dunque principalmente in termini di cultura, tradizione e valori che questi partiti declinano lo sforzo di difesa della sovranità. Si tratta, fondamentalmente, di un’istanza di protezione della way of life nazionale e tradizionale contro la minaccia dei flussi migratori globali e della società aperta.

Di fronte al declino effettivo della sovranità degli stati nazione, messa in crisi sia dal ruolo crescente degli organismi sovranazionali, sia dalla subordinazione di fatto del potere politico ai poteri economici globali, il sovranismo non ha la possibilità, né forse l’ambizione, di produrre più che un simulacro della sovranità perduta: un simulacro edificato sulle basi di una presunta identità comune.

I confini duri sembrano funzionali soprattutto a ricreare la «patria» come immagine rassicurante del mondo, in cui sia possibile riconoscere una chiara separazione tra dentro e fuori, tra «noi» e «loro».

Famiglia

A saldare la retorica della patria con i discorsi a difesa della famiglia è spesso la figura più capace di suscitare investimenti emozionali a livello collettivo: la madre o, negli slanci più retorici, la mamma. «La patria è la prima delle madri», ha detto Giorgia Meloni nel suo discorso di apertura della recente conferenza programmatica di Fratelli d’Italia. Ma «la mamma» è anche – sempre – la mamma, e «difendere l’identità di donna e di madre» è uno dei pilastri del suo programma conservatore – come di quello di Marine Le Pen in Francia.

Un legame stretto unisce così il discorso sovranista ostile all’immigrazione, al multiculturalismo e all’integrazione politica sovranazionale, e l’agenda conservatrice sulle politiche familiari. La famiglia tradizionale va difesa dalle pretese trasformatrici del femminismo, del movimento Lgbt+, del riformismo sociale, sia perché è il luogo primario della sicurezza e dell’identità, sia perché rappresenta la forma principale di welfare sostitutivo in tempi di riduzione degli investimenti pubblici, sia infine perché è l’unità riproduttiva della nazione, il baluardo della stirpe.

Questo ultimo tipo di argomentazione si fa particolarmente esplicito quando i discorsi riguardano il calo della natalità che affligge i paesi dell’est e sud Europa, tra cui l’Italia. Il sogno nativista della destra appare quello del ritorno a una presunta età dell’oro in cui i popoli nazionali vivevano non commisti, omogenei al loro interno per cultura, lingua, religione e tratti somatici: «vogliamo essere quello che eravamo mille e cento anni fa, quando siamo arrivati nel bacino carpatico», ha affermato per esempio Orbán in un’occasione.

In questa prospettiva, il proposito di unificare il popolo implica la produzione un ethnos omogeneo con tratti di «bianchezza», al cui cuore si trova la famiglia come pilastro di un ordine di genere, sessuale, razziale, che sottomette i diritti individuali – in particolare sessuali e riproduttivi – al dovere di assicurare la sopravvivenza della nazione.

Ecco perché si può considerare quello della destra radicale populista come un progetto politico in cui la dimensione di genere è centrale, sia quando il discorso mira a esaltare i ruoli femminili tradizionali di moglie e madre, sia quando assume caratteri apertamente sessisti e omofobici, lanciando accuse di corruzione morale o manifestando disprezzo verso il femminismo e l’attivismo Lgbt+.

Qui è da situare anche quel grande attivatore di conflitto e collante simbolico per la destra politica e religiosa che è il tema del «gender», o meglio del «pericolo», della «follia», della «dittatura del gender». La visione che distingue sesso biologico e genere sociale, ampiamente recepita nei documenti internazionali sui diritti delle donne, è descritta nel discorso della destra come una minaccia identitaria, che fluidifica le appartenenze, scardina l’ordine «naturale» della famiglia, e sovverte il primato della sessualità eterosessuale e riproduttiva.

Libertà

Tornando al discorso di Orbán da cui sono partita, bisogna notare però anche un altro aspetto, cioè la volontà di conciliare una visione comunitarista del popolo, incentrata sull’ordine e la tradizione, con il richiamo alla libertà dell’individuo, nel mercato e nella società: «C’è un tempo per la libertà illimitata, un tempo per librarsi in alto», ha detto il primo ministro, «e anche un tempo per la disciplina gerarchica, per il dovere».

Di quale libertà parlano i populisti di destra? E come si armonizza con la visione gerarchica della società? Può sorprendere, per esempio, riscontrare tra gli Appunti per un programma conservatore del partito di Giorgia Meloni ben cinque su dodici capitoli che contengono nel titolo la parola “libertà”: libertà di impresa, ma anche di espressione, di fare scelte politiche, di credere nella giustizia, e di emergere in base al merito.

Dunque, mentre i leader populisti di destra prendono oggi a bersaglio quelli che sono additati come prodotti del liberalismo – i diritti universali, le libertà delle donne e delle minoranze sessuali, il multiculturalismo – sarebbe riduttivo vedervi il segnale di una rivincita del tradizione e della gerarchia contro la cultura dell’individualismo.

È questo, tra l’altro, uno dei paradossi di fronte a cui ci ha posto la pandemia di Covid-19: la visione della destra law and order che grida alla «dittatura sanitaria», dei campioni del comunitarismo che difendono un ideale anarco-individualista di libertà.

Le ragioni di questa apparente incongruenza sono in parte di tipo strategico – la volontà di occupare lo spazio dell’opposizione all’establishment, o di cercare i consensi del mondo imprenditoriale – ma in parte attengono alla natura propria di questa nuova destra. Che non è né anti individualista, né anti liberista. È anzi imbevuta di quella particolare versione dell’individualismo moderno – esaltato negli ultimi decenni dal neoliberismo – che proclama la sovranità dell’Io su di sé, mentre recide il vincolo di responsabilità che poggia sul rispetto della pari dignità di ognuno.


La professoressa Giorgia Serughetti ha partecipato ieri, lunedì 23 maggio, al ciclo di incontri Di-segno nero, promosso dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Un viaggio tra le destre radicali per conoscere una galassia politica che oggi si candida al governo di molti paesi dell’Unione europea. L’offerta della destra non può essere derubricata o ignorata. Va conosciuta, analizzata, capita. Specialmente alla luce dell’inasprirsi della crisi sociale e dell’impatto che avranno inflazione e rincaro dei generi di prima necessità sui cittadini. L’ultimo incontro si svolgerà venerdì 27 maggio in Viale Pasubio, 5 a Milano alle ore 18.30 e sarà visibile in streaming sul sito della Fondazione dove si trovano anche le inchieste sulla destra radicale. 

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