Il governo Meloni sta battendo i record di questioni di fiducia, svilendo sempre più il parlamento. L’ultimo esempio è la manovra. Con il voto sul Mes, la Camera è stata solo usata come paravento e fare il lavoro sporco per conto di Palazzo Chigi
Un parlamento usato come paravento sul Mes. Il governo ha scaricato su Montecitorio la responsabilità della bocciatura sul fondo salva Stati. «Lasciamo decidere il parlamento sovrano», è stata la linea dettata da Palazzo Chigi e seguita a ruota da tutti i ministri. Compreso il Mef di Giancarlo Giorgetti. Un impeto di sovranità parlamentare, il primo della legislatura peraltro, funzionale per la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: ha potuto assumere una linea pilatesca su un tema scottante.
A conti fatti, il no al Mes rappresenta un’ulteriore umiliazione delle prerogative dei deputati. Prima con la pantomima del parere in commissione Bilancio e poi con la votazione in aula. Il governo ha ordinato l’operazione, la Camera ha eseguito invertendo l’ordine lavori dopo aver sempre usato il calendario come strumento per rinviare la scelta.
Del resto Montecitorio e Palazzo Madama sono rimasti due edifici da visitare, da aprire agli studenti e alle visite guidate, che ogni volta restano sorpresi di fronte a tanta bellezza. La funzione istituzionale è stata depotenziata, quasi cancellata. Con un danno collaterale, tutt’altro che secondario: deputati e senatori sono il riempitivo degli stucchi e degli affreschi di Camera e Senato. L’appeal per il ruolo di “rappresentante del popolo” è calato. Non attira affatto l’idea di trasformarsi in esecutori di scelte assunte altrove, a Palazzo Chigi. O, come nel caso del Mes, di fare il lavoro sporco per conto del governo.
Meloni a tutta fiducia
Le classi dirigenti non si formano più nelle istituzioni. I professionisti, gli imprenditori, gli artisti si tengono ben lontani dall’ipotesi di una candidatura, preferiscono continuare la loro vita lavorativa. Più soddisfacente. Insomma, il mito della buvette, dove prendere un caffè attorniati da giornalisti, e il fascino del corridoio dei passi perduti, il Transatlantico, sono sbiaditi. La responsabilità è della riduzione del numero di parlamentari. Ma anche del fatto che non ne vale la pena. Lo svilimento delle funzioni è sotto agli occhi di tutti, gli “onorevoli” sono appena percettori di stipendi, ridotti al ruolo di schiaccia-bottoni.
La tendenza non è attribuibile esclusivamente a questa legislatura. Lo svuotamento del parlamento è iniziato da anni, da qualche decennio, e prosegue con un’erosione inarrestabile. Il governo Meloni ha assestato il colpo di grazia. La galleria di questioni di fiducia posta sui provvedimenti è lunga. Dall’insediamento a Palazzo Chigi, è stata posta 45 volte, con la media di 3,2 al mese, in poco più di un anno, uguale a un esecutivo tecnico, quello di Mario Draghi, che per la disomogeneità della maggioranza era costretto a blindare i provvedimenti. Per rendere l’idea delle proporzioni, il governo Renzi ha chiesto la fiducia 66 volte, ma in tre anni, non in 14 mesi. Con questo ritmo Meloni schianterà tutti i record.
La blindatura dei testi è connessa all’abuso di decretazione d’urgenza, che ha relegato ai margini lo strumento dei disegni di legge ordinari. L’esito finale è che deputati e senatori non possono incidere sui testi. L’esempio più rumoroso è la manovra, che attende l’ultimo passaggio a Montecitorio il 29 dicembre. Il diktat sugli «emendamenti zero» ai parlamentari di maggioranza è precedente pesante. Mai si era vista una tale evanescenza del dibattito sulla legge di Bilancio. Decidono i leader.
Un cortocircuito istituzionale che vede i presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, spettatori quasi impotenti. Solo dal Quirinale arrivano le reprimende, seppur con il tono garbato tipiche del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nello scambio di auguri natalizi ha fatto appello al «ruolo fondamentale del parlamento». Palazzo Chigi è un muro di gomma.
Peones spariti
Così sono ancora più diradate le leggendarie figure della cronaca politica: i peones. Sono stati il salvavita di molte legislature, finendo per essere mescolarsi con l’immagine del voltagabbana. Quando si annusava l’aria di una possibile crisi di governo, e un eventuale ritorno anticipato alle urne, il peone di turno era capace di votare tutto l’invotabile per allontanare la prospettiva elettorale. E tenersi stretto il seggio. Gli archetipi più recenti sono Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, i salva-Berlusconi nel 2010, che per quello sono usciti dal cono d’ombra dei peones tradizionali. Che per definizione si aggirano come anime in pena. Preoccupati solo dalla rielezione.
Certo, di tanto in tanto, qualche peones si è tolto lo sfizio di lasciare il segno su qualche provvedimento con un emendamento o una legge. Entrando nella storia politica. Basti pensare al Lodo Cirielli, firmato appunto da Edmondo Cirielli. Una delle leggi ad personam di Silvio Berlusconi, portava la firma di un allora misconosciuto parlamentare del centrodestra. Poi diventato più noto nel tempo grazie alla militanza in Fratelli d’Italia.
Più indietro negli anni c’è stata la “rivolta dei peones”, capeggiata dal democristiano Gerardo Bianco nel 1979, che ottenne l’elezione a capogruppo alla Camera, grazie ai parlamentari invisibili, i peones, in grado di capovolgere l’accordo tra le correnti della Dc. Oggi sarebbe impensabile. Perché i peones non sono nemmeno peones. Sono innocui e basta. L'ultimo voto sul Mes è il sigillo.
Professionisti lontani
Ecco che quindi imprenditori di spicco, avvocati di grido, giornalisti di primo piano si tengono lontani dalla candidatura. In molti casi, l’indennità da parlamentare è una diminutio rispetto ai loro redditi. Non c’è nemmeno una ragione economica per diventare “onorevoli”. Dal punto di vista numerico, anche nell’attuale parlamento, la parte del leone è ricoperta dagli avvocati, con l’ex ministra Giulia Bongiorno della Lega e il leader dei 5 stelle, Giuseppe Conte come alfieri.
Sono i profili di maggior peso, per la gran parte si tratta di legali con un onorato curriculum, ma meno noti. Così come il gotha dell’imprenditoria si tiene ben lontana dai corridoi istituzionali. Non si vede un Umberto Agnelli eletto dei tempi che furono nella Prima Repubblica. Uno degli ultimi a provarci è stato Alberto Bombassei, fondatore della Brembo, eletto deputato di Scelta civica nel 2013, il partito di Mario Monti. Del resto, pure gli eredi di Silvio Berlusconi, prototipo dell’imprenditore prestato alla politica (come amava essere descritto), si guardano bene dalla “discesa in campo”.
Quella di Michele Cimmino, imprenditore della moda proprietario di marchi come Carpisa e Yamamay, è una storia paradigmatica. Nel 2015 rassegnò le dimissioni da parlamentare: era entrato in Transatlantico con Scelta civica. Vedendo da vicino le istituzioni, e dopo lo sfaldamento del progetto politico di Monti, chiese ai colleghi di accettare le sue dimissioni da deputato. Si sentiva più utile fuori. E dire che, rispetto a oggi, quel parlamento aveva un grado di incidenza maggiore. Insomma, la classe dirigente sta lontana dalle aule, che di contro non formano classi dirigenti ma abbondano schiere di fedelissimi premi-bottoni.
Camera senza arte
Pure gli artisti hanno smarrito la pulsione verso il palazzo. Negli ultimi giorni si sta molto celebrando la carriera di Gino Paoli, all’alba dei 90 anni, che ha scritto la storia della musica italiana. E che vanta un’esperienza in parlamento. Nel mondo della cultura ci sono tanti altri nomi che sono stati affascinati dall’elezione in parlamento: dal regista Giorgio Strehler allo scrittore Leonardo Sciascia. Fino a Renato Guttuso. Chissà cosa avrebbero pensato di una finanziaria ammutolita per volere del governo.
In questo clima di yes-men non vengono più valorizzati i conoscitori delle regole parlamentari, capaci di muoversi tra le pieghe di articoli e commi, che sovrintendono il funzionamento dei palazzi istituzionali.
Uno di questi è Simone Baldelli, ex deputato di Forza Italia. A Montecitorio conosceva tutti i cavilli possibili. Si era guadagnato un posto da vicepresidente. Ma addirittura non è stato candidato alle ultime elezioni. Profili del genere erano indispensabili nelle aule. Ora non più. La rassegnazione regna sovrana in Transatlantico. I tempi cambiano. Il parlamento è svilito. E si sente addirittura la nostalgia dei peones.
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