- Matteo Salvini non ha nemmeno finto che la scelta di votare Sergio Mattarella avesse un qualche orizzonte ideale: era soltanto l’esito esausto di una impotenza.
- Di fronte a tanta goffaggine qualcuno può pensare a un sovrano disprezzo per i princìpi costituzionali. Ma sbaglierebbe. Non è disprezzo. Si tratta piuttosto dell’estraneità di una classe politica a quei princìpi.
- In Italia, ancora pochi anni fa, dava segni di esistenza una cultura delle istituzioni. Ma una generazione sta per lasciare il campo e non ha eredi. L’ha sostituita un rappattumato populismo.
Omaggi a Sergio Mattarella, ça va sans dire. Aveva dichiarato alto e forte i princìpi costituzionali ai quali si era attenuto per respingere l’ipotesi di un secondo mandato.
Matteo Salvini, l’inetto che tutti lasciano che si autoproclami supremo tessitore, non ha nemmeno finto che la scelta di votarlo avesse un qualche orizzonte ideale: era soltanto l’esito esausto di una impotenza (le abbiamo provate tutte. E in effetti, la pesca a strascico – con qualche bomba di profondità – ha portato a riva ogni sorta di gente, tutta autorevole, dalla capa dei servizi segreti al simpatico notabile democristiano, dall’anziano giurista all'ex ministro berlusconiano e commissario europeo fino all’arrampicatrice oggi insediata al Senato).
Di fronte a tanta goffaggine qualcuno può pensare a un sovrano disprezzo per i princìpi costituzionali. Ma sbaglierebbe. Non è disprezzo. Si tratta piuttosto dell’estraneità di una classe politica a quei princìpi, una estraneità che viene da lontano, e ha una sua storia.
Attinge a una idea e a una pratica di politica intesa come cabotaggio immediato di interessi, di trucchi, come occupazione di spazi, in una visione retta da poche semplici regole: essere in sella domattina, e se qualcosa o qualcuno funziona fermarlo, si trattasse di un ospedale, una biblioteca, un istituto scolastico, di un leader.
Oggi si è dato il caso che fosse disponibile un funzionario d’alto livello, di solida esperienza e alto prestigio internazionale. È stato sufficiente per abbatterlo. Dicono che era antipaticuccio. E soprattutto non si sapeva se era mio, tuo, di lui o di lei.
La cultura delle istituzioni
L’Italia, si sa, non è avara di simili tramestii; dal clientelismo al trasformismo ha una sua lunga storia. Ma ancora pochi anni fa dava segni di esistenza una cultura delle istituzioni. Si pensi solo alle appassionate dichiarazioni dei costituzionalisti quando si parlò di riforme. Era una cultura che tradiva una struttura di pensiero, intessuta di dottrina, forte delle matrici cattoliche, ma ricca di apporti laici.
Tra la politica e quella cultura si sono a lungo intessuti dialoghi, a volte melmosi, che poi sapienti pratiche consociative sapevano ricomporre. Sette anni fa, un soprassalto riformatore aveva scosso la palude delle sinistre – un tentativo poi respinto dalla stessa sinistra a furor di popolo, va da sé – e il capo dei Ds aveva stretto un accordo con “Belzebù”.
Forse lo strappo parve eccessivo, e saltò l’intesa. Eppure ci fu ancora la forza di imporre un second best, un autorevole giudice costituzionale, dovutamente cattolico, un uomo che parlava la lingua del passato, e dunque della costituzione repubblicana. Risultò un ottimo presidente. Altri linguaggi, ormai incapaci di ogni salvifica finzione, hanno sostituito quella generazione.
Nell’odierna pesca a strascico non è mancato qualche recupero: il candidato di allora, oggi 83enne, o anche l’altro autorevole costituzionalista, anni 86. Entrambi, come Mattarella, provenienti dalla Corte. Ma è una generazione che sta per lasciare il campo e non ha eredi.
L’ha sostituita un rappattumato populismo (democrazia è il popolo che vota, il popolo si arrabatta come può, ramazzando scampoli di antiqualcosa). Un populismo afasico, sopraffatto – ora alleandovici, ora combattendolo – da una nordica cultura del fare che si vuole espressione della “società civile”, che sa vendere in Cina e in Mozambico, orgogliosamente priva di ogni idea di nazione, di inutili sguardi sul futuro o sul mondo. Una cultura che ha avuto come unico pseudosupporto l’antipolitica, la lontananza dai palazzi – così infatti costoro chiamano le istituzioni.
Silvio Berlusconi ne è stato per anni brillante rappresentante e campione – nella sua diuturna erosione allo stato di diritto, nell’attacco alle istituzioni e agli interessi collettivi. È una stagione che ha divorato i palazzi. E se l’uomo è giunto al confin di sua dimora in terra, il testimone è stato ben raccolto da una “lega” che non sa andare oltre un distratto e becero nordismo.
Per carità di patria, si possono anche chiudere gli occhi sulla vicenda degli ultimi giorni, eppure ancora ieri mezzo parlamento appoggiava l’idea che un uomo anziano, di salute precaria, espulso dal parlamento (che avrebbe dovuto eleggerlo) per reati fiscali, con carichi giudiziari mai risolti, fosse eletto alla massima carica dello stato.
Anche questa volta, come in tante occasioni, non un’ombra di orror di sé stessa ha colto quella classe politica. Qualcuno dirà «questa è la destra italiana, ragazzi». È vero, legittimamente rivendicando di essere maggioranza, le destre hanno saputo solo balbettare. Ma la cosiddetta sinistra, che si vuole erede di molte diverse culture di grande peso nella storia del paese, da quella cattolica a quella laica-socialista, nonché liberale, per anni si è abbandonata al fascino di battaglie morali attorno all’erotismo senile del signor B o ai suoi misfatti, rinunciando a ogni progetto politico, a ogni visione del mondo. Fino a far propria l’aura dottrina del “meno poltrone!” per ridurre il numero dei parlamentari della Repubblica. Gli eredi dei costituenti!
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