- Quanto accaduto nell’aula di Montecitorio durante l’elezione del capo dello stato è l’inevitabile conseguenza di un malessere aggravatosi già da qualche anno.
- I risultati delle elezioni del 2018, con il sorpasso della Lega su Forza Italia, avevano dato alla concorrenza interna all’alleanza le sembianze di una faida.
- Come Meloni pensi di poter intervenire su questo scenario, per porvi rimedio o rifondarlo, è impossibile prevedere. Ma il suo tentativo sarà senz’altro uno dei maggiori motivi di interesse dei prossimi sviluppi del quadro politico italiano.
«Vasto programma!». Ascoltando Giorgia Meloni che dopo aver dichiarato «politicamente morta» la coalizione di cui fa parte, si prefigge di ricostruirla, balza alla mente la celebre risposta del generale Charles de Gaulle a chi lo invitava, per risollevare le sorti della Francia, a togliere di mezzo tutti gli imbecilli presenti nel paese. Una frase che, da allora in poi, serve a bollare con il marchio dell’utopia tutta una serie di smisurate ambizioni.
In sé, ovviamente, lo sfogo della presidente di Fratelli d’Italia dopo il per lei infausto epilogo della partita del Quirinale non fa una piega. A differenza di chi, come Matteo Salvini, preferisce seguire il sempiterno precetto per cui in politica occorre minimizzare le proprie sconfitte, o addirittura farle passare per successi, Meloni, supponendo che in un caso come questo la negazione possa apparire controproducente di fronte all’evidenza dei fatti, ha scelto un’altra strada classica: rincuorare i seguaci promettendo che la lezione è stata imparata, che quel che c’è da cambiare verrà cambiato e che la battuta d’arresto è solo momentanea.
Un ottimismo della volontà di cui danno ogni giorno mostra allenatori, atleti e dirigenti sportivi e che spesso funziona con i tifosi. È lecito chiedersi però, in questo caso, se l’impresa preannunciata sia fattibile, se chi annuncia di volercisi cimentare speri davvero nel risultato positivo e se abbia in mente quantomeno l’abbozzo di un progetto che la possa trasformare da intenzione in fatto concreto.
Un processo di lungo periodo
Se a questi due ultimi interrogativi soltanto l’interessata potrebbe – o potrà – fornire una risposta, sul primo chi osserva la situazione nei panni dell’analista e non del partecipante non può esimersi dall’avanzare più di un dubbio, sulla scorta dei riscontri che la cronaca politica degli anni recenti ha offerto, sufficienti a stabilire che le lacerazioni di cui il centrodestra ha dato prova nei giorni della elezione presidenziale non sono altro che l’esito, prevedibile se non scontato, di un processo di lungo periodo.
Senza risalire alle premesse decisamente anomale che alla coalizione hanno dato vita nell’ormai lontana fase di collasso del sistema partitico della Prima repubblica, e alle vicende turbolente che ne hanno caratterizzato gli sviluppi durante la lunga stagione dell’egemonia berlusconiana, si può ragionevolmente ipotizzare che quanto accaduto nell’aula di Montecitorio la scorsa settimana – i dissidi su schede bianche e astensioni, le divergenze sulle rose di nomi di bandiera da presentare, fino alle settanta defezioni dalla prova di forza sulla candidatura Casellati, al no di Forza Italia a un accordo su Elisabetta Belloni e alla rottura sul bis di Sergio Mattarella – non sia che l’inevitabile conseguenza di un malessere aggravatosi già da qualche anno.
Le elezioni del 2018
La stesura del copione della sceneggiata era, di fatto, già iniziata con il conteggio delle schede di un’altra consultazione elettorale, su scala ben più larga. Le cifre uscite dalle urne delle legislative del 2018, con il sorpasso della Lega sul partito che da quattordici anni era la guida dell’alleanza, avevano dato alla concorrenza interna all’alleanza le sembianze di una faida.
L’ego smisurato e incontinente di Silvio Berlusconi non poteva accettare lo smacco, che l’enorme ampliamento del distacco nelle europee dell’anno successivo avrebbe reso ancor più traumatico. La formazione del primo governo Conte, che vedeva convergere i leghisti con una forza politica che il Cavaliere apostrofava come «peggiore dei comunisti», rese ancora più palese la distanza tra l’ex presidente del Consiglio e il Capitano leghista.
E neppure la svolta del Papeete, auspicata e pilotata da chi, Giancarlo Giorgetti in testa, voleva ancorare il Caroccio alle sponde moderate, ha colmato l’abisso che in quei frangenti si era scavato.
Da allora in poi, l’azione di Berlusconi ha avuto un solo vero scopo: frenare, per poi farla franare, la pretesa di Salvini di guidare la coalizione. A questo sono serviti i continui attacchi al populismo e al sovranismo, dipinti come minacce alla democrazia con accenti quasi identici a quelli utilizzati dalle sinistre, le differenziazioni sull’atteggiamento da tenere verso l’Unione europea fino all’adesione alla “maggioranza Ursula”, i moniti dall’esterno e dall’interno (di nuovo attraverso Giorgetti) ad abbandonare il gruppo europarlamentare di Marine Le Pen e Afd per approdare – grazie alla interessata sponsorizzazione forzista – al Ppe, nonché i veti, le indecisioni e lo scarso appoggio in campagna elettorale a candidati sindaci non graditi in varie grandi città.
Sabotaggio berlusconiano
Di fronte a questa neppure troppo sottile opera di sabotaggio, in cui Berlusconi non ha esitato a far ricorso, sia pure con maggiore scaltrezza, ai metodi che a suo tempo Gianfranco Fini aveva utilizzato ai suoi danni, Salvini ha dato ripetute prove di insipienza strategica.
A causa della rottura con i Cinque stelle, si è tagliato l’unica via di fuga dall’abbraccio del padre-padrone, che il terreno di convergenza su tematiche populiste di forte presa popolare gli aveva offerto. E la contemporanea rinuncia al tema del superamento dello spartiacque destra/sinistra, sbandierato per anni, gli ha ulteriormente ridotto gli spazi di autonomia, senza peraltro che la virata conservatrice riuscisse ad arginare la concorrenza di Fratelli d’Italia, che sul versante della destra si era insediato sin dal momento della sua formazione.
E proprio la paura del sorpasso elettorale da parte di FdI, acuitasi mese dopo mese per effetto dei numeri rivelati dai sondaggi, ha allontanato l’ipotesi di un coordinamento più stretto fra i due partiti più critici dell’establishment, che – dati i molti punti di vista affini su immigrazione, sicurezza, riaffermazione della sovranità nazionale, diffidenza verso i poteri economico-finanziari, riforme istituzionali – avrebbe potuto dare frutti interessanti.
Al contrario, dopo qualche periodo di esitazione di fronte allo scoppio dell’emergenza Covid, in cui l’improvvisazione del leader leghista, in continua oscillazione fra l’allarmismo e la sottovalutazione della gravità della situazione, è apparsa palese, la rotta di Salvini ha preso un indirizzo inverso, che dinanzi al progressivo sgretolamento dei gruppi parlamentari di Forza Italia, culminata nella crescita di quella pattuglia centrista che ha dimostrato nella corsa verso il Colle il suo notevole potere di condizionamento, si è tradotta in una reiterata offerta di federazione verso il partito azzurro, che, seppure garbatamente respinta al mittente, ha preparato il terreno alla sintonia fra le due formazioni al momento della chiamata di Mattarella a infoltire le fila del sostegno all’esecutivo guidato da Mario Draghi.
Così facendo, il centrodestra ha sancito un’ulteriore divisione al proprio interno, con la scelta di Meloni di assumersi in solitudine la responsabilità dell’opposizione al “governo dei migliori”. Un atteggiamento che, stando non solo alle rilevazioni demoscopiche sulle intenzioni di voto ma anche ai risultati ottenuti nelle elezioni comunali e regionali dell’ultimo anno, appare decisamente pagante.
Divisi alla partenza
Piagata da tutte queste linee di frattura, l’alleanza alternativa al “fronte progressista” Pd-M5s-Leu si è presentata, di fronte alla scadenza del mandato presidenziale, con una debolezza che la risicata maggioranza relativa fra i grandi elettori, inutilmente vantata dai suoi portavoce in ogni sede mediatica, e i formali proclami unitari dei suoi maggiori esponenti, non potevano mascherare.
Già in partenza, infatti, le parti che avrebbero dovuto comporla mostravano profonde differenziazioni fra favorevoli al confronto con la controparte, intransigenti e già conquistati a un compromesso di segno centrista.
La sudditanza psicologica dimostrata ancora una volta da Salvini nei confronti di Berlusconi ha fatto il resto, consentendo alla pantomima dell’“operazione scoiattolo” di tenere la scena informativa per oltre un mese e all’ultraottuagenario ex senatore di apparire come l’ago della bilancia e l’unico possibile federatore di una compagine ormai, nei fatti, sfilacciata e dispersa su più fronti.
Il fallimento di tutte le manovre del leader leghista, unito alla immediata convergenza di Forza Italia sulla conferma del presidente uscente ha consentito alla vendetta berlusconiana di compiersi, costringendo la Lega ad accordarsi al diktat che il vecchio leader aveva pronunciato dalla sua stanza dell’ospedale San Raffaele, rafforzando quell’immagine di vecchio leone ferito ma mai domo che tanta parte ha, in questa fase di inevitabile tramonto, nel suo storytelling mediatico.
E il risultato di questa resa dei conti – a cui altre certamente ne seguiranno – è stato, nel più classico dei “muoia Sansone con tutti i filistei” – l’ulteriore sfaldamento della già traballante alleanza.
Come Giorgia Meloni pensi di poter intervenire su questo scenario, per porvi rimedio o rifondarlo, è impossibile prevedere. Ma il suo tentativo sarà senz’altro uno dei maggiori motivi di interesse dei prossimi sviluppi del quadro politico italiano.
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