Il direttore generale della Rai doveva lanciare l’arrembaggio della nuova egemonia culturale della destra. Ma dopo sei mesi di servizio di rivoluzione non c’è traccia e il palinsesto sovranista non fa audience
«Un calciatore di serie B che si è ritrovato a giocare in Champions League». Il giudizio poco lusinghiero è di una persona che percorre per lavoro i corridoi di viale Mazzini e riguarda Giampaolo Rossi, quello che doveva essere l’ideologo che doveva lanciare l’arrembaggio alla nuova egemonia culturale della destra alla Rai. Dopo sei mesi in servizio, della rivoluzione ideologica non c’è traccia. Niente, o quasi: a funzionare gli ascolti sono i programmi storici del palinsesto. Le nuove intuizioni di conio sovranista che hanno stravolto il palinsesto restano al palo.
Cavaliere della Roma
Rossi – a proposito di calcio, sabato è stato investito cavaliere della Roma, onorificenza che ha ricevuto in panciotto gessato insieme all’ad Roberto Sergio e al cantante Francesco De Gregori, fra i padrini senatori c’era Massimo D’Alema – è in difficoltà, racconta a Domani chi lo conosce, abbacchiato nel suo ufficio al settimo piano di viale Mazzini dove scrolla i risultati stitici dei programmi che ha inventato.
Nunzia De Girolamo e il suo disastroso Avanti Popolo che non si è smarcato dal tre per cento di share né con l’intervista al marito capogruppo Pd Francesco Boccia, Bianca Guaccero che non svolta con Liberi tutti, sempre sotto al tre per cento, Max Giusti al timone di Fake Show, Macondo di Camilla Raznovich che si arena addirittura sotto il due per cento e ovviamente Pino Insegno, che ha ridotto Il mercante in fiera a uno stillicidio quotidiano in termini di share. Perché poi lui sarebbe direttore generale delegato alla governance, non all’offerta editoriale: quella casella per ora non è occupata nella Rai sovranista, anche se ufficiosamente è Rossi a gestire l’offerta.
È a lui che fanno capo i due uomini prodotto, Angelo Mellone al day time e Paolo Corsini agli approfondimenti. Ma la scommessa non sta pagando. E la parabola discendente di Rossi rischia di investire anche i suoi due dioscuri, nonché il terzo uomo, il colonnello Paolo Petrecca, direttore di Rainews.
Del gruppo dei suoi fedelissimi, gli unici a cui ormai si rivolge a viale Mazzini, fa parte anche il capostaff Davide Di Gregorio, l’uomo che gestisce la sua agenda e conosce sempre l’umore del capo, oltre a essere in ottimi rapporti con Mellone. Doveva essere una squadraccia, e invece è una squadretta, con cui Rossi si sente contro il mondo, attaccato dai rivali interni all’azienda e da tutti coloro che dopo un afflato iniziale stanno iniziando a capire che è meglio tenere le distanze da chi è a un passo dal cadere in disgrazia – in tanti hanno capito che la sua gestione non sta funzionando – e dai giornali.
Soffre la sua doppia natura di capo e referente politico: da dentro l’azienda, gli viene attribuita la responsabilità di aver scelto due ufficiali di collegamento non all’altezza, da palazzo Chigi, dove Giorgia Meloni aveva puntato tutto sull’uomo della cultura di Colle Oppio, sente arrivare il vento freddo della delusione per la rivoluzione culturale rinviata, o forse definitivamente spiaggiata.
Il tradimento
Anche perché la politica, però, non lo aiuta nella sua difficilissima missione, come ha confidato a un amico. A mettergli i bastoni fra le ruote è stata la Lega, che è riuscita a portare a casa il taglio del canone, una misura-bandiera che il Carroccio vuole giocarsi come spot per le europee.
Fratelli d’Italia ci ha messo una toppa, recuperando 430 milioni dalla fiscalità generale: una soluzione temporanea che però copre solo i conti del 2024. Gli hanno promesso aggiustamenti, ma del doman non c’è certezza: da dove arriveranno i fondi in futuro è tutto da vedere. Per i meloniani della Rai è alto tradimento: avrebbero voluto anche i 110 milioni di euro che del fondo per l’editoria. Insieme al calo degli ascolti e l’ansia di occupare ogni casella disponibile, il taglio del canone ha fatto scattare anche le opposizioni, che in commissione Vigilanza hanno chiesto di insistere sulle emergenze dell’azienda. I conti preoccupano molto anche la destra Rai, che ha paura di non avere i soldi necessari per la rivoluzione: anche se, in realtà, i piani per risparmiare (e abbattere il debito) ci sarebbero, a partire da quello sulla newsroom o la risoluzione della commissione di Vigilanza sui rapporti con artisti e giornalisti rappresentati dagli agenti.
Eppure, il legame tra Meloni e Rossi è antico: nasce nell’isola nera natia, l’universo della sede dell’Msi di Colle Oppio. Il direttore generale era in Fare fronte per il contropotere studentesco, braccio studentesco del Fronte della gioventù. Rossi frequentava il gruppo di Marco Scurria, oggi senatore di FdI, all’epoca capo degli universitari e fautore di un approccio più dialogante della peggio gioventù nelle scuole superiori e nelle università.
Un mondo il cui slogan in campagna elettorale era “Tutti gli uomini di valore sono fratelli” e un’organizzazione che prese l’arditissima decisione di occupare la facoltà di economia della Sapienza in risposta all’occupazione di lettere organizzata dalla Pantera, manco a dirlo, una sofferta egemonia della sinistra. «Durò mezza giornata» chiosa Massimiliano Smeriglio, oggi europarlamentare ma all’epoca leader della sinistrissima della città universitaria, dove c’era persino un centro sociale occupato, il mitico Rosa Luxemburg. «Li abbiamo sgomberati con un corteo e qualche azione molto creativa a latere» ghigna divertito.
Parliamo dei primi anni Novanta. Poi Rossi sceglie una strada diversa dalla politica attiva. La sua occasione a Rainet si apre nel 2004. Ci sono le europee, i voti dei ribelli di Colle Oppio fanno la differenza e garantiscono 70mila preferenze al già fortissimo Fabio Rampelli, candidato per riequilibrare lo strapotere di Francesco Storace, allora presidente del Lazio. Grazie alla posizione di forza che le elezioni garantiscono ai Gabbiani, i cugini di Destra protagonista, la corrente di Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, decidono di cedere la presidenza di Rainet: e chi meglio di Rossi per quel ruolo?
Da lì, la carriera è tutta dentro la Rai. A Rainet conosce Roberto Sergio, che oggi governa con lui il tandem del servizio pubblico e che gli offre una consulenza a Radiorai quando ne diventa direttore.
Incastrato
Oggi però Sergio è diventato anche suo concorrente. Perché il piano originario di avvicendamento sulla poltrona dell’ad con il rinnovo del consiglio d’amministrazione, a questo punto, è tutt’altro che scontato. Oltre a non volersi prestare ancora a essere il volto pubblico dei fallimenti della gestione sovranista, Sergio, che pure secondo i detrattori non è stato all’altezza del suo incarico di uomo-macchina capace di trasformare in realtà gli spunti di Rossi, vuole arginare l’estro creativo del suo direttore generale. In una gara al più svelto a sfilarsi i sfila dalla responsabilità di un palinsesto autunnale fallimentare. Al più bravo a non restare col cerino in mano.
A premere dall’altra parte c’è Gian Marco Chiocci, l’uomo che Meloni ha voluto al timone del Tg1, che il dg conosce da tempo ma con il quale non è mai riuscito a trovare una vera empatia. Fosse stato per lui, infatti, a guidare il notiziario della rete ammiraglia sarebbe stato Nicola Rao. Missione fallita, alla fine la sua influenza si è ristretta alla scelta della vicedirettrice in quota FdI. Chiocci, che ha dovuto prendere in mano la macchina monstre del Tg1 senza nessuna esperienza di tv, si sta giocando la sua partita: la sua intervista esclusiva al papa è la prima con il pontefice, seconda solo (si fa per dire) a quella di Fabio Fazio.
Lo share non l’ha premiata, forse anche per lo scarso sforzo che l’azienda ha dedicato nel lancio. Prova ulteriore che Chiocci è un corpo alieno rispetto alla Rai sovranista: la sua autonomia è totale, e i colpi che piazza sono frutto dei suoi rapporti personali. A mediare con la segreteria di Francesco è stato il Promotore di Giustizia dello Stato Vaticano Alessandro Diddi, con cui il direttore ha un rapporto privilegiato.
Sapersi muovere Oltretevere gli aveva permesso di avere le carte del processo Becciu prima di tutti gli altri e di intervistare il pontefice già nel 2020, quando era ancora direttore dell’agenzia di stampa AdnKronos.
Insomma, per vincere la partita con il suo amico-rivale, Rossi ha bisogno di un salto di qualità. Ma per farlo gli mancano i mezzi: gli assi nella manica che Viale Mazzini sta programmando sono tutti asset dell’amministratore delegato.
Da Massimo Giletti a Rosario Fiorello, la capacità di tessere contatti è la disciplina regina del democristiano Sergio: soprattutto con l’inquilino del glass di via Asiago (oggi del Foro italico) il legame è particolarmente saldo e Sergio non perde occasione di esibirlo. Per i maliziosi la campagna elettorale dell’ad si muoverà di pari passo con le presenze del conduttore, che imperverserà su ogni piattaforma a qualsiasi orario del palinsesto.
All’arco di Rossi resta la freccia del sindacato (o meglio dell’associazione professionale): la chiave è Agirai, l’alternativa a Usigrai messa in piedi con la benedizione del dg dalle line (vicecaporedattori e caposervizio): tra i nomi più citati ci sono alcuni suoi fedelissimi, come Paolo Corsini – un solido passato sindacale alle spalle, ma che per adesso si dichiara fuori dalla partita –, Incoronata Boccia e l’amico Rao. La nuova compagnia potrebbe aprire strade e relazioni agli ambiziosi. E magari riscaldare l’audience interna a un dirigente come Rossi: le relazioni umane non sono il suo talento maggiore. Anche per questo, dopo le europee, il match con Sergio è una mezza mission impossible.
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