Omicidi, spedizioni, auto che bruciano. Malavita romana, mafia, camorra, ‘ndrangheta. Nella capitale sono saltati gli accordi tra le cosche a pochi mesi dalle elezioni comunali. L’ultimo delitto in pieno giorno su una spiaggia affollata. L’antimafia indaga per capire se esiste un filo unico che lega queste esecuzioni
- Dal 2010 vigeva una pace tra le cosche mafiose e la mala romana. Poi i capi sono stati arrestati e nessuno ha più garantito quell’accordo. Per questo ognuno è libero di sparare e uccidere i nemici
- L’ultima vittima è “Tarzan”, pesce piccolo di un sistema del narcotraffico che a Roma vale miliardi per le mafie storiche. Prima di lui era stato ucciso Fabrizio Piscitelli, “Diabolik”, legato alla camorra e capo ultras della Lazio. Nel mezzo altre esecuzioni misteriose
- Indaga la procura antimafia di Roma. I magistrati vogliono capire se esiste un’unica trama criminale dietro i delitti e le vendette
Mancano otto mesi alle elezioni per scegliere il sindaco di Roma. E in città la malavita ha ripreso la pistola in mano e non si fa più problemi a sparare. Proiettili per regolare i conti, per vendicare uno sfregio, per togliere di mezzo i boss rivali. Proiettili che si fanno sentire tra i palazzi di periferia, nelle strade trafficate, nei parchi, nelle spiagge, dentro e fuori il Grande Raccordo Anulare. Proiettili esplosi non lontano dagli occhi di persone che si trasformano in testimoni involontari di un agguato di mafia.
Proiettili come i due che la mattina di domenica 20 settembre sono stati esplosi tra i bagnanti in uno stabilimento balneare di Torvajanica, a mezz'ora da Roma. Nella giornata delle elezioni e del referendum, mentre migliaia di elettori esprimevano la propria preferenza, il killer eseguiva la sentenza di morte contro “Tarzan”, ossia Selavdi Shelaj, albanese di 38 anni, pregiudicato vicino al mondo del narcotraffico.
Chi gli ha sparato alla nuca lo ha fatto per uccidere, e così è stato. Sul caso sta indagando la procura antimafia di Roma, che sospetta un possibile regolamento di conti tra vecchi e nuovi clan del litorale romano.
Quello di Shelaj non è un nome di spicco della criminalità capitolina, ma l’agguato di cui è stato vittima non è un caso isolato. Negli ultimi due anni bande e clan mafiosi hanno alzato il tiro, il sangue è tornato a scorrere. Sparatorie avvenute in pieno giorno o subito dopo il tramonto in luoghi affollati: i sicari non hanno paura di essere riconosciuti e i mandanti non temono il clamore e le indagini dell’antimafia.
L’omicidio di Torvajanica è solo l’ultimo episodio di una scia di violenza del crimine organizzato a Roma. Sembra sia calato il sipario sulla pace mafiosa stabilita all’inizio degli anni 2010. Le bande capitoline, i clan di ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra: tutte le organizzazioni attive nella Capitale si erano accordate per il disarmo, così da poter continuare indisturbate a fare soldi con droga, usura ed estorsioni, senza finire nel mirino dei magistrati. Non poteva durare per sempre: le inchieste dei magistrati hanno portato dietro alle sbarre i boss che garantivano la pace. Gli accordi sono saltati, e i clan hanno riaperto le casse piene di armi, non hanno più remore nel fare rumore.
Il sangue scorre
È il 9 gennaio, i bambini sono appena tornati in classe dopo le feste natalizie. Andrea Gioacchini, 35 anni, ha appena lasciato il figlio a scuola quando gli si avvicina un uomo su uno scooter, che gli spara quattro colpi e sparisce nel traffico. Gioacchini muore poco dopo. Pregiudicato vicino al clan dei Casamonica, la famiglia di origine sinti egemone a Roma Sud e nella zona dei Castelli Romani, era uscito dal carcere da tre giorni. È iniziato così il 2019 nella capitale, con un agguato mortale a pochi passi da un asilo.
L’omicidio Gioacchini è ancora irrisolto, come quello che nove mesi dopo ha marcato in modo più netto la storia criminale della città. Nel tardo pomeriggio del 7 agosto è stato ucciso Fabrizio Piscitelli, conosciuto da tutti come Diabolik. Era seduto su una panchina del Parco degli Acquedotti, a Roma Est. Non si sa chi stesse aspettando: un uomo vestito da runner con il volto coperto lo ha sorpreso alle spalle, ha sparato due colpi e si è dileguato tra le persone presenti nel parco. Un personaggio dai mille volti, Diabolik: legato alla camorra del clan Senese sin dai primi anni Novanta; fondatore e leader degli “Irriducibili”, il gruppo ultras della Lazio; neofascista amico dei vertici dell’estrema destra romana; capo della “Batteria di Ponte Milvio”, temuta banda di picchiatori albanesi; ma soprattutto narcotrafficante tra i più spregiudicati della Capitale.
Piscitelli era un boss in ascesa, considerato dalle inchieste della procura come capo di un’associazione mafiosa che importava cocaina e hashish a quintali e la rivendeva in tutta Roma. Per questo godeva di una forte considerazione negli ambienti criminali: era arrivato a sedere agli stessi tavoli dei più potenti boss, per mediare gli accordi su zone che non erano sotto il suo diretto controllo. Come quando, nel dicembre del 2017, in un ristorante di della provincia romana trattava una pace su Ostia. Una scalata fino al gotha della criminalità capitolina troppo impetuosa per non dare fastidio a nessuno.
Il trono vacante
Un anno dopo non sappiamo ancora chi siano i mandanti e il sicario dell’omicidio Piscitelli. Né quali siano i motivi della sua esecuzione. Da quel giorno però gli uomini della malavita romana temono che la stessa sorte possa toccare a loro. «C’è una paura diffusa negli ambienti criminali», racconta un investigatore antimafia. «Durante le operazioni degli ultimi mesi, gli arrestati provavano quasi sollievo a vedere noi invece che qualcun altro. Spesso abbiamo trovato delle armi vicine a loro, come se potessero trovarsi improvvisamente in pericolo, prima dell’omicidio di Diabolik non accadeva quasi mai».
Piscitelli è stato ucciso a poche settimane dalla sentenza della Corte di Cassazione sul processo “Mondo di mezzo”, che aveva come imputati l’ex terrorista nero Massimo Carminati, il ras delle cooperative Salvatore Buzzi, e la loro banda. Carminati è conosciuto fin dagli anni in cui faceva parte del gruppo eversivo di destra dei Nuclei armati rivoluzionari col soprannome “er Cecato”. Lui è entrato in Cassazione con una condanna in appello per mafia e ne è uscito da delinquente semplice: capo sì ma di una banda di criminali comuni. Così, lo scorso 16 giugno, è tornato nella sua villa di Sacrofano dopo cinque anni e sette mesi di carcerazione preventiva. E poi ha rimesso piede a Roma, l’8 settembre, per la prima udienza del processo d’appello bis che dovrà ricalcolare la pena.
Carminati è l’unico dei quattro padroni di Roma- i boss indicati dagli investigatori come i re del crimine della Capitale nei primi anni 2000- che ha potuto rimettere piede in città. Insieme al “Cecato” c’era Michele Senese, detto “o’ pazzo” per le perizie psichiatriche falsate che gli permettevano di evitare il carcere, che ora sta scontando una condanna all’ergastolo. Senese era a capo del clan di camorra che comandava su Roma Est e gestiva le più importanti piazze di spaccio. “o’ Pazzo” ha continuato a comandare dalla prigione fino ai nuovi arresti per gli uomini del clan dello scorso 7 luglio.
Anche l’ex padrone di Ostia, don Carmine Fasciani, è in carcere: il 29 novembre 2019 è stato condannato a 27 anni, e il suo clan riconosciuto come associazione mafiosa. Fuori dai giochi sono anche i suoi delfini del clan Spada, i cui vertici sono stati arrestati nel 2018. Stessa sorte toccata ai loro rivali, legati a Diabolik e al clan Triassi, famiglia che rappresentava gli interessi della mafia siciliana sul litorale romano.
Le inchieste dei magistrati hanno decapitato questi gruppi criminali, creando un vuoto di potere: la contesa per riempirlo è fatta di avvertimenti, come l’auto del parente dei boss Fasciani data alle fiamme il 18 settembre scorso. Oppure di attentati, come la gambizzazione del 14 novembre 2019 di Leandro Bennato, vicino ai Fasciani e soprattutto a Piscitelli, in una affollata via della capitale il 14 novembre 2019, o quella dello scorso 20 aprile subita dal cognato del boss Spada tra le case popolari di Ostia. Anche questa in una strada piena di testimoni.
E poi ci sono i Casamonica. Dall’inchiesta “Mondo di mezzo” in poi, il clan è stato decimato dalle operazioni antimafia: Peppe, il boss, è tornato in carcere dopo esserne uscito nel 2018, e così i suoi parenti che avevano retto gli affari criminali della famiglia negli ultimi anni. Come Salvatore, arrestato nell’estate del 2018, mentre stava organizzando l’importazione di sette tonnellate di cocaina dal Sud America insieme a uomini legati a doppio filo alla ‘ndrangheta e ai boss della malavita albanese. Gruppi criminali che negli ultimi anni hanno assunto un ruolo di primo piano nelle dinamiche criminali romane.
Un re straniero
Sono sempre negli affari che contano, gli albanesi. Sono entrati nel giro come manovalanza, ma con il tempo hanno acquisito una loro centralità. Un motivo: il traffico di stupefacenti. Hanno stretti legami con i cartelli sudamericani, ma soprattutto con la ‘ndrangheta, non solo in Italia. Un’alleanza dovuta al controllo dei porti in cui arrivano i carichi di cocaina, come quelli di Rotterdam in Olanda e Anversa in Belgio.
Fino al suo arresto in Albania nel 2018, il numero uno degli albanesi a Roma era Dorian Petoku, vicinissimo a Piscitelli e al gruppo ultras degli “Irriducibili”, e cugino di Arben Zogu, “Riccardino”, picchiatore in stretti rapporti con i boss di camorra e ‘ndrangheta.
Negli ultimi anni, gli albanesi hanno iniziato a infastidire i clan romani perché riuscivano a vendere cocaina a prezzi più bassi. E hanno dovuto pagare il loro tributo di sangue: la sera del 26 gennaio 2020, tra i palazzi di un quartiere a nord della città, è stato ucciso Gentian Kasa: quattro proiettili al corpo e uno alla testa, una volta che si era accasciato a terra.
Il ruolo degli albanesi è però, ancora oggi, di secondo piano rispetto a quello della camorra napoletana e della ‘ndrangheta calabrese. «Ce stanno i servizi segreti che vonno portà la camorra qui a Roma e le ‘ndrine… Je dà fastidio perché noi proteggemo Roma», diceva un esponente del clan Casamonica in una recente intercettazione. Frase che sembra delirante, ma che spiega bene quali siano le preoccupazioni dei clan romani: l’arrivo di nuovi boss dalla Calabria e dalla Campania che vogliono comandare nella capitale. E che trovano gioco facile in un momento di crisi per i più importanti gruppi criminali locali.
Negli ultimi mesi ha allargato le sue mire il clan di camorra dei Moccia. Una parte si è stabilita a Roma e si è arricchita con attività legali e illegali nel principale mercato ortofrutticolo, l’altra invece si è insediata nelle periferie sud e est, facendo affari con la droga. Ma ora il clan sta cercando di insediarsi anche nel centro città attraverso sofisticati architetture di riciclaggio di denaro.
Anche alcune famiglie della ‘ndrangheta hanno occupato il cuore di Roma, altre hanno le loro basi nelle zone periferiche, in particolare nei quadranti Ovest e Est. Per anni hanno fornito cocaina ai clan romani, dai Casamonica alla banda di Diabolik, ma ora puntano ad avere un ruolo di primo piano sulla scacchiera criminale della città. Scacchiera su cui è in corso una guerra per il potere. E si aspetta di capire chi saranno i nuovi sovrani, che decideranno che non è più conveniente sparare.
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