- «La lotta all’evasione si fa davvero dove sta l’evasione, le big company, le banche e non il piccolo commerciante a cui vai a chiedere il pizzo di Stato», ha detto la presidente del Consiglio Meloni, superando anche Berlusconi.
- Dal palco di Catania, durante il comizio di chiusura della campagna elettorale, ha scelto una formula scioccante, in una città, in una regione, dove il «pizzo» è un male assoluto ben noto.
- In questi primi mesi di attività l’esecutivo ha dato seguito alle promesse prevedendo una serie di sanatorie di cui ha beneficiato chi non è in regola con il fisco.
Il pizzo non è più solo quello che la mafia chiede alle attività commerciali, agli imprenditori, che inquina l’economia e avvelena il tessuto sociale. Ora c’è anche una forma di «pizzo di Stato». Almeno secondo le teorie della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha sostanzialmente equiparato il recupero dell’evasione a un’attività criminale.
Dal palco di Catania, durante il comizio di chiusura della campagna elettorale in vista del voto di oggi e domani, ha scelto una formula scioccante in una città, in una regione, dove il «pizzo» è un male assoluto ben noto.
Meloni ha superato anche il maestro in materia, il Silvio Berlusconi nel pieno delle energie fisiche. È cambiato l’accento, dal milanese al romanesco, lo stile senza barzellette era più adirato, e così pure il contenuto è andato oltre quello solito della destra, sdoganato proprio dal fondatore di Forza Italia, fautore dell’evasione «per necessità». «La lotta all’evasione si fa davvero dove sta l’evasione, le big company, banche, frodi sull’Iva e non il piccolo commerciante a cui vai a chiedere il pizzo di Stato, perché deve fare caccia al gettito», ha detto Meloni.
A misura di evasione
Il governo Meloni non si limita alle dichiarazioni. Mentre su vari punti si è fermato alle promesse, in materia di sanatorie fiscali ha già varato una serie di leggi e leggine, con un messaggio politico forte: l’allargamento delle maglie sul contrasto a chi evade sia una delle priorità. La testimonianza pratica è recente, arriva dal decreto Bollette, approvato in settimana definitivamente a colpi di fiducia al Senato. Quel provvedimento dà una carezza agli evasori sotto forma dell’ennesimo condono con l’introduzione di alcune cause «di non punibilità dei reati tributari»: un titolo formale nasconde un piccolo scudo penale.
L’intervento evita problemi con la giustizia per chi trova un accordo con il fisco o si mette in regola con i pagamenti dopo che è stato scoperto un mancato versamento di Iva, di ritenute dovute o un’indebita compensazione di crediti non spettanti. Una misura inserita fin dalla stesura iniziale del decreto, che in teoria avrebbe dovuto prevedere iniziative contro il caro bollette. A nulla sono valse le critiche delle opposizioni, la maggioranza ha respinto l'ipotesi di modifica durante l’iter parlamentare.
L’input meloniano non accettava scostamenti. Niente di nuovo, perché si colloca in prosecuzione con la legge di Bilancio, una collezione di piccoli condoni e misure speciali, per cui è stata trovata la definizione di «tregua fiscale». Come se fosse una battaglia.
La norma più clamorosa è il cosiddetto “salva calcio”, che consente alle società sportive di spalmare i debiti su cinque anni, cavandosela con una mini maggiorazione del 3 per cento. Musica per le orecchie dei presidenti dei club.
Ma la destra di governo non dimentica nessuno. E così ha previsto nella manovra la rottamazione delle cartelle sotto i mille euro, comprese nell’arco temporale 2000-2015, incluse le multe stradali. Tra le sanatorie c’è poi la risoluzione delle controversie pendenti: si chiude tutto versando il 90 per cento per chi è al primo grado di giudizio, evitando di portare avanti il contenzioso. Senza dimenticare il condono a chi ha guadagnato con la tassazione agevolata delle criptovalute. E
chissà se in questo elenco ci siano solo i «piccoli commercianti» che Meloni vuole salvaguardare dal fisco brutto e cattivo o ne hanno beneficiato gli investitori abili a spostare i capitali.
Versione propaganda
La trance elettorale della presidente del Consiglio si è manifestata quando ha annunciato che il suo governo ha vietato la «carne sintetica», dimenticando che ha solo varato un disegno di legge, fermo ancora in commissione al Senato. Poco male, contava il furore della propaganda in un comizio trasceso a un certo punto a metà tra il coaching e lo sciamanesimo: «Gli unici limiti sono quelli che tu decidi di importi», ha detto impartendo lezioni di vita alla platea.
Il climax di Meloni in versione Vox – nel senso del celebre comizio tenuto in Spagna a favore del partito di estrema destra – ha toccato l’apice quando ha dovuto parlare della Rai. Non le è parso vero di poter dismettere il ruolo istituzionale per assumere la postura feroce della propaganda, da leader di Fratelli d’Italia. «Voglio liberare la cultura italiana da un sistema nel quale non potevi lavorare se non ti dichiaravi di una certa parte politica», ha detto.
Un annuncio di piazza pulita. Intanto, già per far capire il clima, il servizio pubblico ha trasmesso in diretta, su Rainews, il suo intervento. Spazzando così via la par condicio, senza nemmeno passare per l’abolizione della legge. Ieri i componenti del Pd della Vigilanza hanno chiesto al direttore Paolo Petrecca di riferire in commissione.
L’Usigrai, l’unione sindacale della Rai, ha espresso la sua forte preoccupazione: «Il canale all news del servizio pubblico ha trasmesso l'intervista integrale alla presidente del Consiglio al festival dell’economia di Trento e il comizio di chiusura della campagna elettorale del centrodestra in Sicilia, ignorando le iniziative delle altre forze politiche che contemporaneamente erano in programma in altre città».
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