Dopo le regionali si avvicina il voto più importante: quello per l’Europa. Ma c’è anche il Piemonte, dove Pd e M5s restano divisi sul candidato
Le regioni con la Sardegna prima, l’Abruzzo poi, la Basilicata tra poco. E anche i comuni, certo, da Firenze a Bari hanno un portato simbolico, oltre che un peso politico rilevante. Ma la vera meta elettorale è quella delle Europee, fissate l’8 e il 9 giugno. Per la collocazione temporale assurgono alla funzione del voto di midterm, nonostante arrivino a meno di due anni dall’inizio della legislatura.
Nessuno crede davvero che le prossime elezioni servano “solo” a rinnovare l’Europarlamento. Il passaggio è politico, lo sanno tutti. Pure nei partiti più piccoli, come confermato da Matteo Renzi che ieri alla Leopolda, a Firenze, ha fatto esercizio di ottimismo prevedendo un 5 per cento alle elezioni, ben oltre la soglia del 4 per cento.
Obiettivo 30 per cento
L’ex presidente del Consiglio sa di rischiare l’autorottamazione in caso di risultato negativo. L’attenzione è però rivolta in gran parte su Fratelli d’Italia, il partito è chiamato al primo tagliando nazionale dopo la vittoria alle politiche del 2022. Giorgia Meloni medita la corsa per sfondare la soglia – impensabile fino a pochi anni fa – del 30 per cento. Dimostrando che i Paolo Truzzu sardi e i Marco Marsilio abruzzesi la rappresentano fino a un certo punto.
La leader di Fratelli d’Italia vuole mettersi in gioco, con il proprio volto da piazzare sui manifesti elettorali. Sarebbe il sigillo alla sua leadership, che imporrebbe la mordacchia agli alleati, nello specifico Matteo Salvini, riottoso a ricoprire il ruolo di numero due della coalizione.
Tanto che nei conversari in Transatlantico, alla Camera, qualcuno azzarda la previsione: «La stravittoria di Meloni sarebbe il preludio alla fine della legislatura». Tradotto: a quel punto vorrebbe prendersi tutto, ridimensionando gli alleati. Sembrano ragionamenti dal sen fuggito, che però prendono spunto da un presente che vede la presidente del Consiglio stufa delle bizze del vicepremier.
Da qui ai prossimi mesi, in piena campagna elettorale, la china è destinata a peggiorare. Salvini avverte una pressione interna, che mai aveva assaggiato sulla propria pelle. C’è chi inizia a mettere in discussione quello che è stato sempre indiscutibile, ossia la leadership nel partito in cui è inciso il suo nome.
Meloni ha l’arma del consenso, quella che il segretario federale della Lega ha sciupato, mojito alla mano, sotto il sole del Papeete. E la premier scorge sull’altra sponda del fiume, rigorosamente lato sinistro, l’avversaria-alleata prediletta per polarizzare le Europee: la segretaria del Partito democratico, Elly Schlein. Il duello televisivo non c’è stato ancora, ma è solo questione di tattica, un modo per utilizzare al meglio il fattore temporale. Si farà per reciproche necessità.
Del resto se Meloni vuole cercare il plebiscito, la leader dem pensa alla legittimazione definitiva dopo la sorpresa alle primarie. L’ex eurodeputata vuole mostrare ai compagni di viaggio di saper prendere i voti, le preferenze, con il proprio nome. Per questo viene dato per assodata la sua presenza in lista alle Europee.
Un azzardo, certo: di fronte a un’eventuale debacle, la responsabile sarebbe facilmente individuabile. Ma è significativo che voglia correre direttamente, tra l’altro aumentando il coefficiente di difficoltà su un tema a lei caro: la tenuta della futura coalizione anti-Meloni. Giuseppe Conte si muove con la solita scaltrezza per pungolare il Pd. Non è intenzionato a fare concessioni a Largo del Nazareno.
Finanche l’alleanza tra Verdi e Sinistra rappresenta un grattacapo per Schlein: il sodalizio con Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni non è in discussione, ma è chiaro i rossoverdi contendono lo stesso elettorato ai dem. Insomma, la segretaria del Pd è chiamata a fare la contorsionista per costruire l’alternativa, rafforzandosi, senza danneggiare i delicati equilibri della futuribile alleanza del campo largo o comunque lo si voglia definire. Le ultime trattative per le regionali sono un esempio del suo progetto.
Il muro di Torino
E la nuova frontiera del progetto unitario tra i progressisti è diventata il Piemonte, dove si voterà in concomitanza delle Europee. In questo caso, però, occorre un capolavoro politico per ricomporre il patchwork di ruggini passate, tensioni mai sopite. Il dossier è stato affidato direttamente a Schlein. Perché ancora oggi una sostanziale volontà di continuare a farsi la guerra invece di unirsi contro la destra.
L’emblema della distanza siderale è l’incomunicabilità tra il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo del Pd, e l’ex sindaca del M5s, Chiara Appendino, risalente all’amministrazione dei 5 Stelle. Se in quasi tutti i territori e sul piano nazionale, le ferite del passato tra dem e pentastellati si sono sanate, sotto la Mole non c’è nulla da fare: Lo Russo spinge per la corsa di Daniele Valle, vice presidente del consiglio regionale piemontese e sgradito ai contiani. La soluzione perfetta per il movimento “no-Conte” che anima parte dei dem. Pd e 5 Stelle sono, insomma, divisi dal muro di Torino. In questo clima è finito in stand-by il nome di Chiara Gribaudo, vicepresidente del Pd vicina a Schlein, e allo stesso tempo in discreti rapporti con il vicinato contiano. Sembrava destinata a ricevere l’investitura, ma a meno di tre mesi dalle elezioni è tutto fermo.
Gongola perciò il presidente uscente, Alberto Cirio (Forza Italia), ricandidato senza troppi patemi anche per i buoni rapporti con FdI. Tanto che si vagheggiava di un possibile passaggio sotto le insegne meloniane. Ma la linea della premier su questo punto è chiaro: nessuno sgarbo ai forzisti. E del resto in caso di vittoria, il partito di Meloni è pronta a passare all’incasso con gli assessorati. Sempre che ci sia il vento in poppa del buon risultato alle Europee.
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