Persa la scommessa su von der Leyen nel ruolo di federatrice della maggioranza Ue allargata a destra. La legittimazione della segretaria del Pd è stato un clamoroso autogol, ora è partito il cantiere dell’alternativa
Il tocco magico, ammesso ci sia mai stato, è ormai un ricordo. Uno dopo l’altro, infatti, Giorgia Meloni è riuscita a inanellare una sequenza di errori che la stanno portando a essere sempre più debole in Italia, in Europa e addirittura oltreoceano. Dalle europee in poi, la leader di Fratelli d’Italia sta vivendo un momento di forte appannamento. Per non dire di crisi. Archiviata gli slogan di giubilo per la vittoria elettorale e riposti i lustrini del G7 a Borgo Egnazia, dove ambiva ad accreditarsi agli occhi dei grandi del pianeta, il mondo reale ha presentato il conto.
Le scelte errate degli ultimi mesi, tra compagni di strada sbagliati e la presunzione di essere indispensabile e imbattibile, stanno sfatando l’aura della donna vincente e lungimirante a ogni curva. A cominciare dalla legittimazione di Elly Schlein come vera avversaria. L’obiettivo era quella di metterla all’angolo di schiacciarla con la forza mediatica. E invece la polarizzazione della sfida politica ha favorito la segretaria del Pd, messa al centro della scena con una visibilità che ha sfruttato bene, rilanciando le parole d’ordine dal salario minimo agli investimenti sulla sanità, senza dimentica la battaglia contro l’autonomia differenziata. Oggi Schlein sta forgiando l’immagine di leader alternativa a Meloni, che l’ha vista arrivare e l’ha sottovalutata.
Flop von der Leyen
Ma l’esempio paradigmatico è l’all-in sul ruolo di Ursula von der Leyen. Meloni ha puntato sulla presidente della commissione europea, convinta che potesse realizzare il capolavoro di portare i conservatori, nonostante l’imprinting post-fascista, nella maggioranza che reggerà l’Ue nei prossimi anni. Uno sdoganamento storico, una riproduzione su scala europea di quanto fece Silvio Berlusconi con Gianfranco Fini negli anni Novanta.
Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la volontà politica delle principali famiglie politiche europee, popolari, sociali e liberali. Von der Leyen è tutt’altro che una leader intoccabile, ma una regina travicella. Tanto che deve pensare a salvare sé stessa e conservare l’incarico a Bruxelles senza addentrarsi in complicate alchimie politiche per elargire ricompense ad altri. La premier italiana, come spesso le capita dinanzi alle difficoltà, ha reagito minacciando di fare la guerra all’establishment europeo. Il risultato? Chiudersi ancora di più nell’isolamento che la terrà lontano dalla stanza dei bottoni dell’Unione europea. La strategia è stata altrettanto claudicante sulla donna del momento, Marine Le Pen, corteggiata solo quando il Rassemblement national (Rn) francese era già in odore di trionfo. «Ho sempre auspicato anche a livello europeo che venissero meno le vecchie barriere tra le forze alternative alla sinistra e mi pare che anche in Francia si stia andando in questa direzione», ha detto Meloni commentando l’esito del voto per le legislative francesi. Solo che in quel campo, la presidente del Consiglio è arrivata troppo tardi.
Prima ha pensato di poter guidare in prima persona l’operazione della “super destra” in Europa per spostare l’asse politico, inglobando le altre forze di quell’area politica, dalle moderate alle più radicali. Ma quello che nelle intenzioni voleva fare Meloni, lo sta realizzando nei fatti Le Pen, che trascina con sé il vero partner italiano, Matteo Salvini, strettamente legato alla leader del Rn. Sono nella stessa famiglia europea, Identità e democrazia, fin dalla precedente legislatura. Meloni è arrivata dopo, nonostante il carico di voti. Pesa l’errore di valutazione, o per meglio dire di sottovalutazione, della presidente del Consiglio verso l’alleato leghista: ha immginato che il vicepremier fosse politicamente in fase calante, contando esclusivamente sul bottino di consenso delle europee. Invece Salvini, per quanto indebolito, è riuscito a trovare una doppia scialuppa di salvataggio, in Italia con Roberto Vannacci, e in Europa proprio con Le Pen.
Resta tutto da valutare quanto possa essere duratura questa strategia; di sicuro, al momento, Salvini sta acquisendo un peso maggiore rispetto alla premier italiana nonostante abbia un terzo dei suoi voti. Alla fine sarà Fratelli d’Italia a dover chiedere una mano alla Lega per farsi accreditare in Europa.Una sinfonia di svarioni di Meloni. Per completare l’opera è incrinato lo storico sodalizio con il primo ministro ungherese, Viktor Orban, intenzionato a recitare un ruolo di primo piano nello scacchiere europeo. Senza fare da alfiere alla leader italiana, da cui è sempre più lontano sul sostegno militare all’Ucraina contro la Russia. Insomma, da palazzo Chigi vedono gli amici storici prendere un’altra direzione. Lasciando sempre più sola la leader che sognava di fare la regista della destra in Europa.
Assalto al Colle
E se a Bruxelles va male, a Roma non va certo meglio. Di fronte alle parole antisemite e razziste di militanti e dirigenti di Gioventù nazionale, la presidente del Consiglio se l’è presa per la modalità dell’inchiesta di Fanpage. Lo scopo era di mettere in secondo piano il contenuto fino a tirare la giacca al capo dello Stato, Sergio Mattarella. «È consentito da oggi infiltrarsi in un partito politico e riprenderne segretamente le riunioni? Lo chiedo ai partiti politici, al presidente della Repubblica», ha detto con una rara sgrammaticatura istituzionale, che ha momentaneamente raffreddato i rapporti con il Colle, sempre improntati alla cordialità con palazzo Chigi.
Il silenzio del Quirinale è piuttosto rumoroso, mentre altri a destra hanno pubblicamente reagito. È il caso di Alessandro Giuli, giornalista d’area meloniana e attuale presidente del Maxxi: «Meglio aver illuminato l’abisso prima che l’abissa sia venuto a cercarci», ha detto in un’intervista al Corriere della Sera. La presidente del Consiglio dovrebbe ringraziare Fanpage per aver scoperchiato la vergogna dei giovani di Gn che inneggiano al fascismo: così può ripulire il partito dai nostalgici del fascismo presenti tra le nuove leve. Invece Meloni si è rifugiata nel corpo a corpo, nell’atavico complottismo, rinfocolando lo scontro con la libera stampa.
In questa affannosa gara al riposizionamento, Meloni appare in ritardo addirittura oltreoceano. La sua vicinanza con il presidente statunitense, Joe Biden, è stata funzionale a puntellare la posizione atlantista. Solo che adesso non si può sbianchettare con qualche manovra last minute. L’avvicinamento a Donald Trump, che pure politicamente è più affine alla leader di FdI, sta avvenendo fuori tempo massimo. Ancora una volta, l’eterno rivale che ha in casa, Salvini, ha saputo anticipare le mosse della presidente del Consiglio, intestandosi la stelletta del trumpiano d’Italia numero uno. La sua fascinazione per il tycoon, che punta a tornare alla Casa Bianca, è di vecchia data ed è stata coltivata per mesi, lontano dai riflettori. Non è stata rinnegata nemmeno quando Trump sembrava caduto in disgrazia per i suoi guai giudiziari.
Per Salvini l’ex presidente degli Usa è stato «vittima di una persecuzione giudiziaria e di un processo di natura politica». In quella fase, Meloni era totalmente bidenizzata come testimonia il feeling geopolitico sull’asse Roma-Washington rafforzato sul sostegno militare all’esercito ucraino. Una scommessa sul bis di Biden, che dopo la deludente performance nel duello televisivo sembra un’ipotesi remota. E Meloni adesso sta compiendo gesti da equilibrista per non voltare definitivamente le spalle al presidente statunitense in carica e allacciare contatti con Trump. Trovando, però, il carro del possibile vincitore pieno. Con Salvini pronto a fare selezione all’ingresso.
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