Una e trina, ma non può più continuare. Fino ad oggi Giorgia Meloni è stata una leader dalle personalità multiple, ne ha mostrate almeno tre. C’è Giorgia Meloni presidente del Consiglio che organizza un importante G7 che le dà un riconosciuto standing internazionale, che è capace di costruire in un anno e mezzo una buona relazione con Ursula Von der Leyen, di far avanzare senza eccessivi problemi il Pnrr, di non entrare in conflitto con la Commissione sulla politica di bilancio, di prendere iniziative intelligenti e nell’ottica dell’interesse nazionale in Nord Africa, di ideare politiche, pur controverse e di limitata efficacia, sull’immigrazione che hanno trovato appoggio in Europa.

Questa è la versione della premier concreta, capace di affermarsi con maggior forza alle elezioni europee dopo un anno e mezzo dalle politiche e di convincere anche l’elettorato più moderato.

C’è poi Giorgia Meloni presidente dell’Ecr che si muove sul crinale ambiguo tra europeismo ed euroscetticismo, che cerca di mettere un piede in maggioranza mentre ne tiene uno saldamente fuori, che si espone alla discriminazione dei partiti europeisti, che duetta con Orbán più che con ogni altro primo ministro, che vota contro Kaja Kallas come Alto Rappresentante per la Politica Estera per ragioni di mera etichetta politica pur essendo quest’ultima filo-atlantica e a favore dell’Ucraina come lei, che rischia nonostante queste acrobazie di perdere il pezzo dei conservatori meno moderati e ritrovarsi con un gruppo ridimensionato e una posizione politica precaria.

C’è poi Giorgia Meloni capo del proprio partito, un capo assoluto di un partito oramai personale che non riesce a delegare decisioni e organizzazione se non ai membri della propria famiglia allargata, che deve gestire nostalgie imbarazzanti, comportamenti dilettanteschi e dichiarazioni scomposte dei suoi parlamentari, che si ritrova un gran pezzo dell’organizzazione giovanile del partito infestata da sproloqui neo-fascisti e antisemiti e non sembra capace di sbarazzarsene in modo netto e definitivo.

Queste tre Meloni non possono più continuare a convivere in modo politicamente profittevole, come dimostrano le ultime settimane. Dopo il successo elettorale, la premier si è ritrovata ai margini delle trattative nell’Unione europea per scegliere i nuovi incarichi apicali, in un sistema dove prevalgono logiche e giochi di palazzo più che i risultati elettorali.

Avere un solido consenso a livello interno e guidare un grande paese non basta per entrare in piena regola nel mainstream europeo. E nelle logiche di palazzo di Bruxelles, rette dai tre partiti della maggioranza europea, non sono comprese aperture al tavolo delle decisioni per i conservatori.

Può essere una strategia sbagliata in prospettiva o essere considerata uno sgarbo all’Italia, ma è la dura legge del potere di cui la premier si è ritrovata vittima. Ciò non significa che le armi di Meloni siano del tutto spuntate: Von der Leyen non ha una maggioranza molto ampia, ci saranno franchi tiratori e soprattutto come capo di governo ella potrà minacciare il veto nelle future decisioni del Consiglio Europeo.

Per questi motivi alla presidente del Consiglio si offrirà la possibilità una sorta di appoggio esterno in cambio di un buon commissario italiano. E se ciò avverrà e Fratelli d’Italia sarà decisiva per rieleggere Von der Leyen, allora le personalità multiple di Meloni dovranno scomparire per concentrarsi in quella unica di capo del governo perché, pur dalla porta di servizio, questa sarà diventata parte del sistema di potere dell’Unione europea.

Altrimenti Meloni può scegliere la strada dell’euroscetticismo, della rottura con l’establishment europeo, della protezione a oltranza della sua tribù politica. Ma questa strada rischia di essere a breve senza ritorno.

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