«Ci hanno spinto contro il muro, con botte tremende. Spararono alla mamma che mi cadde addosso e morì». Cesira Pardini, ha ricordato così gli ultimi istanti della sua famiglia. I suoi occhi di ragazza non hanno mai dimenticato quella sorellina di pochi giorni «in fin di vita», che morì dopo una settimana di agonia.

È il 12 agosto 1944 quando soldati della 16 divisione Panzer Grenadier SS massacrano 392 civili, tra donne, anziani e bambini.

Non sono uomini dell’esercito regolare, della Wehrmacht, ma un corpo d’élite della gioventù hitleriana, al comando del generale Max Simon, un fanatico nazista. Sono giovanissimi (fra i 16 e i 25 anni) e sono addestrati alla guerra di sterminio. I loro commilitoni si sono già macchiati d’infamia massacrando la popolazione civile sul fronte orientale, nell’Europa dell’est, fin dal 1942; in Italia tornano a razziare e impiccare in una lunga scia di sangue che travolge l’intera penisola.

Tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 si combatte in Italia una guerra totale fatta di rastrellamenti con incendi a case e villaggi, corpi impiccati sulla pubblica piazza, stragi, eccidi di massa, deportazioni, stupri contro le donne. I civili diventano il bersaglio strategico della guerra “casa per casa”, della logica della “terra bruciata”; una tattica di terrorismo preventivo e intimidatorio, utilizzata dalle forze occupanti tedesche per “bonificare” il territorio dalle bande di ribelli e punire i civili che osano dare sostegno, cibo e cure, alle formazioni partigiane.

Il ruolo dei fascisti

All’alba di quel 12 agosto, la gente è tranquilla. Tra le poche case, fra castagni e ulivi, le mamme stendono il bucato. Qualche sera prima i bambini si sono incantati a guardare le stelle nella notte di San Lorenzo, e anche gli sfollati dalle città bombardate, sembrano aver trovato pace su quei monti a ridosso della Versilia.

E invece, alle prime luci del giorno, circa 300 soldati accerchiano il paese da due lati. Il II battaglione del 35° reggimento, comandato dall’austriaco Anton Galler (condannato all’ergastolo in primo grado solo nel 2007) raduna gli abitanti sulla piazza e li massacra uno a uno, per poi dare fuoco alle case.

Neppure i neonati vengono risparmiati e secondo alcuni testimoni, con la divisa tedesca addosso, ci sono anche tanti italiani. Fascisti versiliesi che, per non farsi riconoscere, indossano un passamontagna. Sono loro a sistemare le mitragliatrici che travolgono le mamme con i figli in braccio, loro a spingere nei fossati i rastrellati. Nei giorni successivi alla strage, militi delle Brigate nere si vanteranno, ubriachi in una trattoria, di aver preso parte a quell’operazione di sangue, come un titolo di onore.

L’odio verso i partigiani

Nel tempo, intorno all’eccidio di Sant’Anna si è radicata una memoria divisa. Abbandonati dalle istituzioni del Dopoguerra i famigliari delle vittime hanno elaborato il loro lutto trovando appiglio in un risentimento profondo verso le bande partigiane locali, accusate di aver scatenato la ritorsione tedesca per non essersi consegnate al nemico.

Ma quella rabbia (umanamente comprensibile) è stata abilmente strumentalizzata da narrazioni di comodo, da polemiche infinite, da distorsioni della verità che hanno preso di mira le ragioni dell’antifascismo e di tutta la Resistenza.

L’assenza di processi contro criminali di guerra nazifascisti ha nel tempo alimentato l’odio verso i partigiani, permettendo ai carnefici di rimanere impuniti. Migliaia di documenti e fascicoli processuali illecitamente archiviati per oltre 50 anni, in nome delle ragioni della Guerra fredda, rinvenuti solo nel 1996 presso la sede della procura generale militare di palazzo Cesi a Roma.

Un armadio della vergogna nazionale ancora poco conosciuto, mentre a ogni 25 aprile si riapre il processo alla Resistenza, ribaltando torti e ragioni, meriti e bassezze, valori e disvalori. Quasi che le azioni partigiane fossero atti di terrorismo, mentre si assiste a una generale riabilitazione del fascismo e a una giustificazione delle colpe dei tanti crimini commessi da militi della Rsi, “buoni padri di famiglia”, costretti solo a obbedire a ordini superiori.

Una vecchia narrazione, si dirà. Tipica di chi ama avvelenare i pozzi. Ma forse vale la pena di ricordare (oggi che si cerca di rileggere il passato senza alcun rispetto per le vittime e i loro famigliari, persino negando la verità processuale sull’eversione nera degli anni 70) che un tempo ci fu una generazione ribelle capace di risollevare la patria, trascinata nel fango da Benito Mussolini e dai suoi miti guerrieri. E forse dal ricordo nascerà anche la riconoscenza per quei resistenti alla macchia, decisi a combattere con ogni mezzo il terrore nazifascista per riprendersi la libertà e restituire dignità al paese che nel 1922 aveva regalato il potere al fascismo.

© Riproduzione riservata