Maurizio Landini, partiamo dalla crisi di Stellantis. John Elkann ha accettato la chiamata della Camera e presentato un piano industriale. Un passo avanti?

In realtà non è un piano industriale, è un piano di transizione, anche perché nel 2025 continuerà a esserci la cassa integrazione come nel 2024, e questo apre subito il problema di tutelare il reddito di lavoratori che faranno fatica a superare i mille euro medi di salario.

È la soglia Istat del lavoro povero.

Sì, e nello stesso periodo saranno versati milioni di buona uscita all’amministratore delegato che se ne va. L’unica novità è l’impegno su una piattaforma per Pomigliano e qualche versione ibrida di auto. Ma sia Mirafiori sia altri stabilimenti restano scarichi di commesse. Non c’è investimento sulla giga factory.

Stellantis investirà 4 miliardi per una giga factory in Spagna, e questo è preoccupante: per produrre auto elettriche serve tutta la filiera industriale, anche la giga factory. Non averne neanche una in Italia è un problema serio. Due miliardi per il 2025 non è un piano di investimenti, è una cifra del tutto insufficiente ad affrontare il processo di cambiamento del settore. Insomma, c’è un atteggiamento diverso, ma non c’è la definizione di un progetto che dia sicurezze produttive e garanzie occupazionali. Siamo lontani da un vero piano industriale.

In più il governo ha confermato in sostanza il taglio di 4,6 miliardi all’automotive, settore che occupa più di 300mila persone, ed è sparito dalla discussione l’ingresso di nuovi produttori nel paese. Quindi, per noi, le ragioni della mobilitazione restano. Il 5 febbraio i sindacati dell’industria europei manifesteranno a Bruxelles. Abbiamo due proposte: una moratoria dei licenziamenti in tutta Europa, e che si costituisca, come nella pandemia, un fondo europeo per affrontare la transizione del settore industriale: sostegno al reddito e alla formazione, anche per accompagnare processi di riduzione e riarticolazione degli orari di lavoro.

Per il ministro Giancarlo Giorgetti «la politica industriale la fanno gli imprenditori».

Non è così, i privati fanno i piani industriali, le politiche industriali le fanno i governi, perché mettono soldi pubblici e quindi devono indicare gli indirizzi, i settori e le strategie di fondo. Il mercato può rispondere al cambiamento climatico, alla transizione ambientale e digitale che richiede nuovi prodotti, a una nuova mobilità che richiede un sistema infrastrutturale del tutto diverso? Non è così, basta vedere quello che succede in Cina, in Asia, negli Usa. Lasciar fare al mercato, come pensa il governo, è un errore tragico e strategico. L’assenza di politiche pubbliche degli ultimi vent’anni la stiamo pagando tutta in termini occupazionali e di ritardi sul piano tecnologico.

La destra, e non solo, la accusa di essere poco conflittuale con gli Elkann in cambio di una presenza sui loro giornali.

È solo un modo per non parlare dei problemi veri, e delle responsabilità della proprietà e dei governi, non solo quello in carica. La Cgil e la Fiom, dal 2010, hanno sempre contrastato scelte sbagliate e denunciato i ritardi sull’innovazione dei prodotti; prima con la Fiat, poi con Fca e ora con Stellantis, gli Elkann sono sempre stati gli azionisti di maggioranza. E dire che la Fiom e la Cgil in questi anni non abbiano sempre detto e fatto quello che invece hanno detto e fatto è una menzogna. I lavoratori e le lavoratrici del gruppo, che pagano di tasca loro queste scelte sbagliate, lo sanno bene.

Lo sciopero generale ha prodotto passi avanti?

Innanzitutto ha avuto successo ed ha dimostrato una novità: oltre allo sciopero, 500mila persone nelle piazze d’Italia hanno chiesto un cambiamento delle politiche economiche e sociali perché il governo non sta risolvendo nessun problema. La richiesta resta sul tavolo di palazzo Chigi e delle forze economiche. Invece il governo usa la maggioranza che ha in parlamento per non discutere con nessuno. In queste ore non siamo solo di fronte a una brutta legge di Bilancio, ma anche a un governo che non vuole trovare un accordo con i sindacati scesi in piazza che hanno dimostrato la loro rappresentanza. Non ci fermiamo.

Salvini vi precetterà.

Faccia il ministro, affronti i problemi della mobilità, smetta di fare il “preCetto Laqualunque”. Ma c’è un tentativo più ampio di mettere in discussione il sistema di relazioni sindacali e il diritto di sciopero. Rivendichiamo una legge sulla rappresentanza che dia sostegno agli accordi interconfederali in modo che non sia il governo a scegliere con quale sindacato gli conviene fare gli accordi, ma siano sempre i lavoratori a decidere. È in corso un referendum fra i lavoratori del settore pubblico, i dipendenti delle funzioni centrali, a cui è imposta una soluzione che prevede aumenti del 6 per cento contro un’inflazione del 17. Sono certo che, liberi di esprimere il loro voto, respingeranno quest’imposizione.

Ad Atreju la premier ha detto che lei, incitando alla «rivolta sociale», usa toni «senza precedenti nella nostra storia sindacale».

Chi incita è lei, con i toni che usa la butta in politica e crea nemici per non parlare dei problemi. Io continuo a fare il sindacalista e dico che i problemi sono: i salari al palo, la precarietà che aumenta, la sanità pubblica che non funziona; sul fisco, continuano a tassare dipendenti e pensionati anziché prendere i soldi da chi in questi anni ha fatti profitti record. La rivolta sociale, ripeto per l’ennesima volta, è chiedere alle persone che si mettano insieme per superare le disuguaglianze. Nei prossimi mesi saremo impegnati con tutti i mezzi democratici a disposizione per cambiare le cose, compresi i referendum su leggi balorde.

Qual è il giudizio sulla manovra in approvazione alle camere?

Introduce l’austerità nel nostro paese per i prossimi sette anni, taglia la spesa sociale, quella per le politiche industriali, l’unica spesa pubblica che aumenta è quella per le armi, il contrario di quello che serve. Il vizio d’origine è il piano presentato all’Europa, che prevede la riduzione del debito pubblico, cosa giusta, ma non tagliando la spesa sociale. Invece la riduzione del debito va fatta andando a prendere i soldi dove sono, tassando le rendite e i profitti e costruendo un piano di investimenti pubblici e privati in grado di creare lavoro, recuperare i ritardi accumulati e determinare una crescita del nostro paese.

L’autonomia differenziata è stata mutilata dalla Consulta, la legge cambierà, avete vinto la battaglia. Il referendum non mette a rischio una vittoria già ottenuta?

No, abbiamo chiesto di abrogare totalmente la legge. E anche le macerie possono creare danni: vanno rimosse, va rimossa l’idea stessa di autonomia differenziata, non solo ciò che per la Corte è, nella sostanza, incostituzionale. Questo è stato il senso della raccolta di firme. I referendum sono sei, affermano che serve un’unica politica fiscale, energetica, economica, una sanità nazionale, che la responsabilità negli appalti deve essere della ditta committente, perché i sub-appalti distribuiscono sfruttamento e morte, che abbiamo il diritto a un lavoro non precario, e di dare cittadinanza a tutte le persone che con il loro lavoro e la loro intelligenza pagano le tasse e fanno crescere il paese.

Per Gentiloni «rimettere in discussione il Jobs act è lunare».

Sono sotto gli occhi di tutti, anche di quelli di Gentiloni, i disastri che ha prodotto l’aumento della precarietà. Dovrebbero capirlo anche quelli che su questi temi hanno perso le elezioni. Se chi fa politica non capisce che la maggioranza oggi non va a votare perché non si sente più rappresentata, non so in quale altro modo spiegarlo. Recuperare la partecipazione significa ascoltare e risolvere i problemi delle persone, che uno non è libero se è precario, se non ha il diritto di essere curato, se lo studio non è un diritto permanente, se lavorando si è poveri e si continua a morire sul lavoro. Le logiche di precarietà sono quelle che portano i giovani ad andarsene via e negare il futuro del Paese. Continuare a non capire è la cosa peggiore.

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