- La rivista va subito a ruba, due ristampe e 10 mila copie vendute in un paio di giorni. Il titolo di apertura è da brivido: “I cavalieri di Catania e la mafia”. Mai nessuno, prima d’allora, aveva osato fare i nomi di Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro.
- L’uscita del mensile pochi mesi dopo l’uccisione a Palermo del generale Carlo Alberto dalla Chiesa che, nella sua ultima intervista a Giorgio Bocca, aveva parlato proprio della mafia di Catania e dei cavalieri.
- Inchiesta dopo inchiesta sulle contiguità fra boss e ras della politica fino a quando, il 5 gennaio del 1984, due killer scivolano alle spalle di Pippo Fava e lo uccidono davanti a un teatro.
Le rotative sfornano il primo numero la sera del 22 dicembre del 1982. La tipografia è a Sant’Agata Li Battiati, uno dei paesini ai piedi dell’Etna.
Anche la redazione è lì, in uno scantinato che conserva ancora la puzza del vecchio deposito di un supermercato. In edicola arriva undici giorni dopo e, a fine mattina, è già esaurito.
Una prima ristampa e poi subito un’altra ancora, diecimila le copie vendute. Pippo Fava fa il miracolo.
«Minchia, ve l’avevo detto che bisognava uscire subito e non aspettare una settimana di più», ringhia con un sorriso ai suoi “carusi”, una decina di ragazzini catapultati nel vortice di un giornalismo duro mai conosciuto prima sotto il vulcano.
Il beato prefetto
Il titolo di apertura è da brivido: «I Cavalieri di Catania e la mafia». In copertina c’è un richiamo all’inchiesta su "Donne e l’amore nel sud”, firmata da Elena Brancati, una giovanissima cronista nipote di Vitaliano Brancati, lo scrittore di Don Giovanni in Sicilia e di Paolo il Caldo.
Il terzo titolo: "Essere giudici in Sicilia”, reportage di Riccardo Orioles e Antonio Roccuzzo sui magistrati di Palermo e il racconto di un incontro con Giovanni Falcone.
«È stata forte l’emozione in tipografia, anche perché era il giorno del mio trentaquattresimo compleanno, il primo numero lo stavamo preparando dall’inizio di novembre ma era in ebollizione da sempre», ricorda Orioles che fa un salto indietro nel tempo e sprofonda nella Catania corrotta e spietata dove il boss Benedetto Santapaola inaugurava la sua concessionaria d’auto accanto a un beato e cerimonioso prefetto.
Ma era quel titolo grosso su tre colonne che fa tremare la città. Chi aveva mai osato nominarli prima? E per giunta vicino alla parola mafia, che da quelle parti era considerata una bestemmia.
Che cosa aveva in testa quel guitto travestito da direttore? E perdipiù con un giornale tutto suo, senza padroni ai quali dovere dare conto. La straordinaria avventura de I Siciliani era appena cominciata.
A passo di danza
Quattro mesi prima, dall’altra parte della Sicilia, a Palermo, avevano ucciso il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Nella sua ultima intervista – famosissima, rilasciata a Giorgio Bocca – parlava proprio di Catania e di quei cavalieri.
Uno è Mario Rendo e l’altro Carmelo Costanzo, poi ci sono Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro. L’incipit dell’articolo di Pippo Fava: «E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro cavalieri catanesi. Dopo quello che è accaduto, vien facile perfino la citazione: i quattro cavalieri dell’apocalisse».
Di ciascuno ne disegna il profilo («Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore, vestono però tutti alla stessa maniera, almeno nelle apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini, di quella eleganza senza moda»), descrive i loro affari nel mondo – edilizia, agricoltura, turismo, editoria – svela le loro amicizie. Una bomba atomica sganciata su Catania.
Il boss e l’assessore
Uno dei quattro cavalieri l’aveva avuto come editore un paio di anni prima. Era Graci. L’aveva chiamato a dirigere Il Giornale del Sud, un foglio che nelle intenzioni avrebbe dovuto fare concorrenza a La Sicilia di Mario Ciancio, il quotidiano storico della città.
Fava raccoglie per strada ragazzi volenterosi e li trasforma in cronisti, di più: in cani da caccia. Troppo svegli per quella Catania, troppo liberi.
Le conseguenze non tardano ad arrivare. Un ordigno all’ingresso secondario della redazione, di notte, le stanze per fortuna sono vuote. È solo un avvertimento. Ma dopo l’attentato è un colpo di scena dopo l’altro.
Si moltiplicano le cronache sui rapporti fra i capimafia e i ras della politica, quelle sul malaffare nelle amministrazioni pubbliche, sugli scandali alla regione.
Fino a quando il figlio di Pippo, Claudio, diventato nel frattempo giornalista anche lui, firma con l’amico Orioles un servizio dettagliato su Alfio Ferlito, un boss nemico di Santapaola e parente di un assessore comunale.
Il giorno dopo Pippo Fava viene licenziato. Acrobatica la motivazione: i conti, la crisi economica della testata. Il lato oscuro di Catania che prepotentemente rimette le cose a posto.
“Socialmente pericolosi”
E così Pippo trascina le sue giovanissime truppe verso l'impresa di un nuovo mensile, I Siciliani. Racconta Antonio Roccuzzo: «Pippo impose un’accelerazione all’uscita del giornale perché sapeva che quello era il momento giusto per tutto ciò che stava accadendo in Sicilia dopo l’agguato a Dalla Chiesa». Aveva ragione.
Roccuzzo scrive per il primo numero un articolo sulle vergogne al palazzo di giustizia di Catania. E cosa è successo? «Era come gridare in piazza quello che tutti sapevano, noi ci eravamo limitati a fare i giornalisti secondo le regole del nostro direttore».
Titolo di Pippo sulla giustizia catanese: «L’ermellino, la volpe e la lupara».
In redazione ci sono anche Michele Gambino, Fabio Tracuzzi, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Lillo Venezia e Giovanna Quasimodo, nipote pure lei di un personaggio assai illustre, il premio Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo.
Incoscienti e, in qualche modo “socialmente pericolosi” per un ambiente paludato e molto silenzioso, i "carusi” di Fava fanno scintille. Su alcune pagine di tanto in tanto figurano pubblicità fasulle.
Di una notissima azienda italiana di birra, di una fabbrica di automobili svedesi. Specchietto per le allodole, nessuno ha mai dato un centesimo a I Siciliani.
La mafia in parlamento
Inchiesta dopo inchiesta si va avanti. Riccardo Orioles: «Noi non abbiamo scoperto proprio niente, bastava prendere nota di cosa accadeva in città, poi Pippo pensava a farci vedere le cose, più che il senso della notizia lui aveva il senso delle storie, dei collegamenti».
Numero dopo numero fino alla sua ultima apparizione, ospite di Enzo Biagi alla tivù della Svizzera italiana: «Mi rendo conto che c'è un'’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, il fenomeno della mafia è molto più tragico e importante».
Lo sguardo lungo. È il 28 dicembre 1984. Una settimana dopo, di sera, vicino al teatro Verga dove sta andando a prendere la nipotina che recita in Pensaci, Giacomino, due sicari gli scivolano alle spalle e lo uccidono. Pistole calibro 7,65. È il 5 gennaio del 1984.
Il numero 12 de I Siciliani esce con tre giorni di ritardo. Il figlio Claudio firma una commemorazione che non è una commemorazione: «Io non so come mio padre avrebbe descritto il proprio funerale, ma credo che si sarebbe divertito..».
Il resto del giornale è un fitto pro memoria. Riflessioni e commenti del giurista Guido Neppi Modona e dello scrittore Vincenzo Consolo, della giornalista Miriam Mafai, del poeta Sebastiano Addamo. E nelle prime pagine, ancora l’incipit dell’articolo sui quattro cavalieri dell’Apocalisse: «Avanzano quasi a passo di danza..».
Le pistole in redazione
Un anno se n’è andato dall’uccisione di un giornalista che era anche sceneggiatore, drammaturgo, pittore, uomo di teatro, e I Siciliani navigano a vista senza il suo condottiero.
«Io arrivo subito dopo la sua morte ma ero un avido lettore fin dal primo numero: era un giornale che aveva fatto respirare finalmente i catanesi», dice Sebastiano Gulisano, prima attivista sociale e poi redattore.
Ricostruisce quei mesi: «Sono entrato curando una rubrica sui fumetti e un inserto satirico, mi ricordo il clima: in fondo allo stanzone due scrivanie e sulle scrivanie due pistole, una di Claudio Fava e l’altra di Miki Gambino. Sì, c’era paura, tanta paura. Nessuno di noi aveva una vita fuori dal giornale».
Il mensile diventa settimanale. Ma dura poco, fino a luglio 1986. I “carusi” di Pippo provano a far sopravvivere la loro creatura, ma è un’agonia. Ed è la diaspora.
Claudio se ne va in Sudamerica, Michele emigra a Brescia Oggi, Antonio al Manifesto, Giovanna diventa a Siracusa la prima direttrice donna di un quotidiano italiano, Elena sceglie l’insegnamento, Riccardo è a Roma nella redazione di Avvenimenti, Sebastiano scrive su un giornale economico della Sicilia orientale.
Quarant’anni dopo Orioles, con il suo bastone e la sua pipa, non si arrende: «Nessuno sa più chi era Rendo o Costanzo, noi siamo ancora qui». Sono qui con I Siciliani giovani, impronte lasciate una sera di dicembre del 1982.
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