L’attuale catasto si basa su classamenti che risalgono a oltre ottanta anni fa (il nuovo catasto edilizio urbano, costituito nel 1939). Le rendite associate a quei classamenti sono state rideterminate più di trent’anni fa, nel 1990, e successivamente, nel 1996, sono state rivalutate del cinque per cento. Un sistema di valorizzazione degli immobili così datato dà ovviamente un’immagine distorta del valore, in termini assoluti, del patrimonio immobiliare. Le rendite catastali sono infatti molto inferiori ai valori di mercato: l’Agenzia delle entrate stima un valore di mercato medio di 190mila euro contro un valore imponibile di 101mila euro.

Dal punto di vista della tassazione ciò che è rilevante, tuttavia, è che l’immagine è molto distorta anche in termini relativi. La distanza delle rendite catastali dal valore di mercato è molto disomogenea: per un quarto degli immobili (i più fortunati) è superiore del 30 per cento alla media mentre per un altro quarto (i più svantaggiati) è inferiore del 45 per cento. Chi sono avvantaggiati e svantaggiati? Secondo un recente studio (riportato da lavoce.info), basato su dati a livello comunale, le aree maggiormente agevolate dall’attuale disallineamento dei valori sono le zone costiere di Sardegna, Toscana e Liguria (aree turistiche), oltre a grandi città come Roma e Milano. Al contrario, tra i più svantaggiati troviamo i proprietari di immobili nelle aree interne del Sud. Peraltro nelle grandi città, come mostrano altri studi, vi è sperequazione ai danni delle periferie, dove gli immobili sono stati accatastati più recentemente. Nell’insieme, in definitiva, il catasto attuale produce una sperequazione nelle imposte che su di esso si basano (Imu, registro e successione) a favore delle aree più ricche del paese.

L’Imu, noi e Malta

Dovrebbe essere naturale, per tutte le forze politiche, promuovere una revisione che corregga la disparità tra i contribuenti, lasciando invariato il gettito totale. Eppure i diversi tentativi degli ultimi dieci anni si sono scontrati con l’opposizione di principio dei partiti di centro-destra (ma non solo) e delle lobby edilizie (proprietari e costruttori). Da ultimo, l’accesa opposizione di Lega e Forza Italia, alla disposizione contenuta nel disegno di legge delega fiscale che voleva predisporre, entro il 2026, una fotografia aggiornata degli immobili, associando alla rendita catastale il valore patrimoniale a prezzi di mercato. Senza che ciò comportasse effetti sulle imposte da pagare.

In realtà una revisione della tassazione immobiliare è necessaria non solo per motivi di equità ma anche di efficienza. Innanzi tutto, per ricomporre il prelievo tributario, spostando l’onere dai fattori produttivi verso consumi e rendite. Oggi, al contrario, il settore immobiliare è ampiamente agevolato con importanti effetti distorsivi che favoriscono l’investimento in quel settore rispetto a impieghi alternativi. Le imposte più rilevanti, l’Imu e la Tasi, producono un gettito di circa 20 miliardi l’anno, di fatto azzerato dalle numerose agevolazioni fiscali. Le detrazioni (al 50 e 65 per cento) per spese di ristrutturazione e riqualificazione energetica, introdotte negli anni Novanta, assommano a quasi 9 miliardi l’anno (di cui meno di 2 miliardi finalizzati al risparmio energetico). A queste si sono aggiunte nel 2020 quelle più corpose per facciate (90 per cento)e superbonus (110 per cento), che da solo costa oltre 35 miliardi in meno di due anni. Vi è poi la detrazione per gli interessi sui mutui che costa circa un miliardo.

Imu e Tasi tassano solo le seconde case, le prime case sono esenti dal 2016 (governo Renzi), dopo alterne vicende che hanno visto dal 2008 al 2012 (governo Berlusconi) l’esenzione e successivamente (governo Monti) una tassazione agevolata. In Europa, l’Italia è l’unico paese insieme a Malta, in cui la prima casa è totalmente esente, a prescindere dal suo valore. Davvero difficile comprendere la motivazione di un sistema che tratta nello stesso modo abitazioni del valore di 50mila euro e di cinque milioni. Quando l’imposta sulla prima casa fu reintrodotta dal governo Monti si fissò una detrazione dall’Imu di 200 euro che escludeva dalla tassazione un quarto degli immobili e rendeva l’imposta progressiva (il gettito era di circa 4 miliardi).

Come avviene nella maggior parte dei paesi, le imposte sugli immobili dovrebbero essere la principale fonte di finanziamento dei comuni per le caratteristiche della base imponibile (che non può trasferirsi per evitare l’imposta) e poiché i servizi dei comuni hanno un riflesso immediato nel valore delle abitazioni. In un sistema decentrato (o federale) sono l’imposta ovvia per realizzare il connubio tra autonomia e responsabilità.

Chi paga i comuni?

«Sul catasto il centrodestra ha paura che emerga la verità dei privilegi»

L’esclusione indiscriminata della prima casa dall’Imu produce il bizzarro risultato per cui i servizi dei comuni sono finanziati solo dai proprietari di seconde case, spesso non residenti che quindi votano altrove. Davvero singolare che a forze politiche che strenuamente sostengono ipotesi federali sfugga questa contraddizione. Di fatto gli unici contribuenti che finanziano direttamente il proprio comune sono quelli che pagano l’addizionale all’Irpef, ovvero i lavoratori dipendenti: i proprietari di prima casa non pagano nulla e i lavoratori autonomi che usufruiscono della flat tax sono esentati dalle addizionali. È il federalismo all’italiana.

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I proprietari di seconde case, che pagano Imu e Tasi, godono comunque di un’importante agevolazione sulla tassazione del reddito da locazione. Esiste la possibilità di optare per la cedolare secca, con un’aliquota proporzionale del 21 per cento; se si tratta di canoni concordati nelle aree ad alta intensità abitativa l’aliquota è ridotta al 10 per cento e si gode di uno sconto del 25 per cento dell’Imu. Il gettito complessivo è di circa tre miliardi. Lo schema fu introdotto nel 2011 per favorire l’emersione dal nero, che effettivamente c’è stata ma non in misura sufficiente a compensare la perdita di gettito su chi già pagava. Dopo dieci anni si potrebbero portare le aliquote al 26 per cento, lo stesso livello di quelle applicate sui redditi da capitale (come prevedeva il disegno di legge delega fiscale).

Per riassumere, un riordino della tassazione immobiliare con l’obiettivo di riequilibrare il prelievo dai fattori produttivi verso la rendita richiederebbe, come minimo, cinque interventi. Eliminare le detrazioni fiscali per spese di ristrutturazione mantenendo solo quelle per il risparmio energetico al 65 per cento (non si capisce perché lo stato debba contribuire al rifacimento dei bagni o all’acquisto dei divani), con un risparmio valutabile a regime in almeno sette miliardi l’anno. Non rinnovare Superbonus e bonus facciate. Assoggettare a Imu e Tasi le prime case prevedendo una detrazione intorno ai 300-400 euro che escluderebbe più di metà delle abitazioni e agevolerebbe tutte le altre, con un gettito valutabile, a spanne, di due miliardi. Aumentare al 26 per cento l’aliquota della cedolare secca sugli affitti, con un gettito valutabile intorno a 0,7 miliardi. Infine, procedere con la revisione del catasto redistribuendo così l’onere fiscale da fasce più povere della popolazione a fasce più ricche.


 

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