Il manager lanciato dalla sinistra romana, fiorito con Draghi, atterra a Napoli con il vento meloniano alle spalle. Un ritorno all’opera in cambio della poltrona da ad: era soprannominato “Napoleone”, adesso sarà “San Carlo”
Carlo Fuortes, o Napoleone, come lo chiamavano i suoi detrattori a viale Mazzini, rischia di trovarsi con un brillante avvenire dietro le spalle. La ragione individuata da chi lo conosce bene è la Rai, che finisce per mettere in difficoltà anche il più scafato dei manager. E Fuortes di esperienza ne ha da vendere.
L’economista inizia la propria carriera fondando una società di rilevazioni statistiche, ma presto trova la sua strada nella direzione delle più importanti realtà culturali di Roma. Dal palazzo delle Esposizioni alle scuderie del Quirinale, dall’auditorium Parco della musica alla Fondazione lirico sinfonica Petruzzelli: Fuortes si fa presto la nomea di chi sa risanare le crisi.
Ma sa mettere mano anche alle situazioni in salute: come succede al Teatro dell’Opera, dove da sovrintendente rimette in ordine i bilanci a modo suo, disposto anche a fare i conti con lunghe proteste sindacali.
La carriera va di pari passo ai buoni rapporti con giornali e politica. Principalmente di centrosinistra, con legami solidi con il Pd romano dei primi anni 2000, da Walter Veltroni a Goffredo Bettini. Inevitabile anche un saldo rapporto con Salvo Nastasi, a lungo direttore generale del ministero dei Beni culturali: un combinato disposto che fa di Fuortes l’astro nascente del management culturale della sinistra romana e poi nazionale.
Neanche quando i dem a Roma perdono il potere la stella di Fuortes si oscura. Forte dei suoi risultati, ma anche dei rapporti che ha intessuto con giornali e potere, può contare su un’intercessione a suo favore quando nel 2006 al Campidoglio si insedia Gianni Alemanno. È il primo contatto con la destra che poco meno di vent’anni dopo conquisterà palazzo Chigi. Anche la vittoria di Virginia Raggi non compromette la sua parabola: per lui garantiscono le frange dei dem romani più bendisposte nei confronti dei Cinque stelle.
Essere soprintendente del Teatro dell’Opera è una patente di appartenenza all’establishment romano: Bruno Vespa siede nel consiglio della fondazione, tra gli habitué delle rappresentazioni spiccano figure come Gianni Letta e Serena Cappello, moglie di Mario Draghi.
Lo sbarco in Rai
Tutto quello che un manager come Fuortes può desiderare. «Un uomo da palchi d’onore», lo fotografa una persona che lo conosce bene. Sono proprio le frequentazioni romane che gli aprono le strade per arrivare alla tv pubblica (o subirla, punti di vista).
Nello specifico, quella con Antonio Funiciello (solidi legami con Luca Lotti prima e Paolo Gentiloni poi), capo di gabinetto di Draghi nel 2021: quando si tratta di rinnovare il cda Rai, inizialmente il nome di Fuortes viene portato al tavolo per il ruolo di presidente. C’è chi giura che sia arrivata una segnalazione a Draghi anche dall’amico Franco Bernabè: alla fine la scelta ricade su Fuortes e Marinella Soldi, proposta da Francesco Giavazzi, all’epoca consigliere economico del premier.
Dalla trattativa esce una nuova governance a ruoli invertiti. A luglio 2021 Fuortes diventa ad, Soldi – che viene da Discovery, dove ha raggiunto risultati su cui i giudizi divergono – preferisce la presidenza, secondo alcuni per evitare le rogne che derivano da un ruolo operativo. In Rai arriva la consacrazione della nomina del “governo dei migliori”, priva di etichette politiche come ama Fuortes, che, secondo vecchi amici, in barba ai sostegni del passato, non ha mai voluto appartenere a nessuna casella.
Viale Mazzini, però, si sa, chiede un tributo. E così capita anche a uno come Fuortes di dover scendere a patti con il complicato mosaico di tasselli politici che compone la Rai. Con una certa tendenza, dice a Domani chi l’ha visto all’opera, all’indolenza in attesa delle indicazioni della politica, che non tardano ad arrivare.
Basta aspettare novembre 2021, quando con una spericolata manovra ideata a palazzo Chigi si tenta il tutto per tutto per costruire un ponte con l’unica opposizione a Draghi rimasta, quella di Giorgia Meloni. Dalla trattativa esce l’accordo per la direzione di una rete: i Fratelli d’Italia puntano alla radio, al Pd sembra più sicuro dirottarli su Rainews, dove viene individuato il vicedirettore in quota, Paolo Petrecca, promosso alla direzione al posto di Andrea Vianello, che trasloca in Radio.
Per quel posto inizialmente si pensa a Nicola Rao, ma l’idea tramonta a causa di un passato di professioni di fede di estrema destra e libri sulle croci celtiche ritenuto troppo ingombrante. L’anno successivo – sempre con la firma di Fuortes – Rao prenderà in mano la guida del Tg2. Tutto è perdonato.
E poi Meloni
Insomma, i rapporti con Meloni, a dispetto delle precedenti connessioni di Fuortes con la politica, fioriscono. Anche perché, nonostante Fratelli d’Italia non abbia un rappresentante in consiglio d’amministrazione, l’ad non esita a tenere aperto un canale con la leader dell’opposizione.
Una mossa che scontenta non poco Lega e Forza Italia, che in quel periodo sperano di approfittare della gloria riflessa del governo Draghi e relegare in un cono d’ombra i meloniani. Il rapporto di fiducia con Meloni, che avrebbe potuto permettere all’ex ad di rimanere in sella fino alla conclusione del suo mandato, è cristallizzato in un aneddoto che racconta chi ha partecipato alla festa per i sessant’anni in Rai di Vespa.
A pochi mesi dalle elezioni, l’ospite d’onore alla cena con affaccio su piazza di Spagna è proprio Meloni. C’è ovviamente anche il manager, che non esita a salutarla con una simpatia che non passa inosservata.
«Ha istituzionalizzato il legame che c’è sempre stato tra politica e Rai» è la frase che si sente ripetere. La cartina di tornasole sarebbe nell’eredità che ha lasciato: nessun piano industriale e una riforma dei generi che, hanno notato in molti, appare estremamente simile a quella lasciata sulla scrivania da Fabrizio Salini prima di sgomberare l’ufficio di ad.
La rottura con i meloniani arriva pochi mesi dopo. Le provocazioni di Sanremo agitano gli animi sovranisti, ma il punto di non ritorno è l’imposizione di Giampaolo Rossi come direttore generale, la prima richiesta ufficiale della nuova premier, che deve soddisfare gli appetiti dei suoi. Fuortes lascia e fa sfumare il progetto dei dem di mantenere un presidio di lotta nel servizio pubblico, una voce che resiste (la maggior parte delle altre saranno eliminate a stretto giro dalla nuova governance).
Meloni gli offre una exit strategy: per lui c’è il teatro San Carlo di Napoli. Il ruolo da soprintendente viene liberato in fretta e furia da un decreto scritto con leggerezza, tanto da offrire a Stéphan Lissner gli appigli necessari per un ricorso. Fuortes, in realtà, avrebbe voluto la Scala.
Niente da fare: il soprintendente Dominique Meyer scade nel 2025, ma soprattutto il sindaco Beppe Sala non si vuole vedere imporre un ad uscente da un governo sovranista. Fuortes intanto tiene un profilo bassissimo. Accettare la via d’uscita offerta dal duo Meloni-Gennaro Sangiuliano è difficile: arrivano altre proposte, ma alla fine sceglie di cedere alle richieste del sindaco Gaetano Manfredi.
Dopo che il sindaco ha proposto il nome di Fuortes a Sangiuliano, felicissimo di firmare la sua nomina al San Carlo e chiudere la pratica, la questione sembra chiusa anche per il presidente campano Vincenzo De Luca, visto che la Regione vota nel consiglio della fondazione del teatro.
I rappresentanti del “cacicco” si sono astenuti al momento del voto sulla nomina, specificando che non si trattava di un veto. C’è chi vede la ragione di questo distinguo in un intervento del maestro Riccardo Muti, pronto a tornare a Napoli con la nuova gestione.
Un rientro che ha anche un altro significato: Muti sarebbe sì disposto a dirigere al San Carlo, ma mai con la direzione musicale che sognano al ministero della Cultura, quella di Beatrice Venezi, già consulente del ministro e da tempo testimonial della destra sovranista.
«Abbiamo lavorato per costruire un percorso che portasse Fuortes al San Carlo: occorre continuità dal punto di vista artistico e ci sono ampi margini di crescita» dice Manfredi. C’è già pronto anche il rinnovo tra due anni. Ma nel 2025 termina anche l’incarico di Meyer alla Scala. Le vie di Fuortes sono infinite.
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