Nel partito si ragiona sul dopo-Europee: in caso di risultato negativo serve una nuova leadership. Nell’auspicio che il vicepremier si faccia da parte spontaneamente
La scritta “game over” dopo le europee non è più una fantasia da romanzo distopico. Matteo Salvini, alla fine del conteggio dei voti a giugno, rischia davvero di dire addio alla leadership della Lega. E chiudere il suo decennale ciclo per lasciare spazio a un suo erede: Massimiliano Fedriga, presidente della regione Friuli-Venezia Giulia.
È il profilo considerato più spendibile di tutti. Anche perché in grado di evitare scossoni al governo. E in possesso di un titolo raro: lo standing nazionale, che sta forgiando con un afflato moderato. Certo, in parlamento gli alleati non credono alla successione: sono convinti che Salvini non mollerà, in qualsiasi caso.
Fatto sta che, al netto delle valutazioni esterne, i maggiorenti leghisti, dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al presidente della Camera Lorenzo Fontana, fino al presidente della regione Veneto Luca Zaia, al capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, non hanno alcuna intenzione di sottovalutare il dato delle europee.
L’asticella è fissata alla doppia cifra, quel 10 per cento che diventerebbe il salvavita politico per Salvini. Al di sotto della soglia vitale, l’auspicio è che il vicepremier in carica prenda atto della fine della sua leadership, che ha portato la Lega alla rinascita ma anche a una nuova caduta. L’eventuale uscita di scena non deve essere un redde rationem cruento, ma deve configurarsi come un’operazione ordinata. Quindi con delle dimissioni volontarie.
Fedriga l’erede
E qui entra in gioco Fedriga che, secondo i ragionamenti dei big leghisti, ha il physique du rôle per rimpiazzare Salvini. Prima di tutto per una ragione pratica: ha dimostrato di saper prendere i voti. Alle ultime regionali in Friuli-Venezia Giulia non c’è stata competizione.
Poi c’è il fattore Meloni. I rapporti con Fratelli d’Italia sono buoni. E questo metterebbe al riparo il governo da eventuali ripercussioni. Ci sarebbe anche l’eterna candidatura di Zaia, ma il diretto interessato non vuole saperne. A maggior ragione dopo le polemiche con i meloniani, addirittura con il solitamente mite ministro Luca Ciriani.
Zaia vorrebbe solo la norma sul terzo mandato. Sarebbe l’assicurazione di poter governare il suo regno in Veneto. Fontana è invece fuori dai giochi per il ruolo istituzionale da presidente della Camera.
La lista degli aspiranti successori include anche Molinari, capogruppo leghista a Montecitorio. Nel partito vedono però due macigni lungo il suo tragitto verso la segreteria. Anzitutto la provenienza regionale, il Piemonte. La Lega è molto cambiata, ma mantiene saldamente le radici in Lombardia e Veneto. Ed è da lì che dovrà arrivare il nuovo segretario federale. Inoltre Molinari, a differenza di altri, è percepito come uomo di apparato, non certo un acchiappavoti alla Zaia o alla Fedriga.
Al massimo può essere il traghettatore da un leader all’altro. Peraltro i rapporti con Salvini non sono più quelli di un tempo. Da qualche mese si sono deteriorati per incomprensioni politiche. Tra le tante cose non è stata gradita dai vertici del gruppo la mossa di dialogare con l’Udc di Lorenzo Cesa, mettendo sul piatto l’ipotesi di dare “in prestito” due deputati ai centristi. Fedriga, invece, vanta tuttora un buon rapporto con Salvini, ed è un vantaggio irrinunciabile.
Incubo Papeete
L’idea che circola nei conversari privati è quella di avere sempre “Matteo” nel ruolo di regista politico, una sorta di padre nobile. Nessuno vuole mandarlo in pensione anticipata né tantomeno voltargli le spalle e farne un nemico. Finora, viene sottolineato, gli è stato perdonato tutto, e non potrebbe certo accusare gli amici di tradimento.
In particolare gli è stato perdonato il colpo di testa del Papeete quando, in un’estate, ha sperperato il capitale di consenso politico conquistato dalla Lega. Il partito ha anche soprasseduto sul tracollo elettorale alle ultime politiche. Salvini è andato in conferenza stampa rivendicando addirittura l’esito del voto. E nessuno ha battuto ciglio.
Le preoccupazioni ci sono, eccome, per quelli che saranno i prossimi mesi. Nella Lega era stato molto gradito il nuovo corso avviato dopo l’insediamento del governo. Salvini aveva indossato i panni istituzionali, soffermandosi sul lavoro al ministero delle Infrastrutture. Dopo pochi mesi, però, il leader è tornato alle origini: toni urlati, polemiche di bassa lega, sfoderando il marchio del populismo doc.
Per le europee la rotta è tracciata: uno spostamento sempre più a destra fino ad abbracciare gli impresentabili dell’estremismo europeo, dalla Germania alla Danimarca. Il leader leghista è convinto che sia la soluzione ideale, l’unica praticabile, nonostante i maggiorenti leghisti osservino: «Giorgia Meloni conserva il proprio consenso per un approccio rassicurante, lontano dal vecchio populismo». Non funziona più l’attacco all’Europa, è la loro tesi. Le cose sono cambiate e gli elettori chiedono toni meno barricaderi.
Ed è a questo punto che si innesca il pericolo di un cortocircuito: se Salvini non è intenzionato a rendere moderate le sue posizioni in campagna elettorale, potrebbe decidere di non fare un passo indietro in maniera spontanea.
Al momento è convinto di riportare la Lega sopra il 10 e quindi non accetta discorsi ipotetici. Perciò, di fronte alla possibile sconfitta, c’è l’eventualità che si irrigidisca, rispolverando il modello Papeete. Trascinando a fondo il partito e con lui il governo. Perché, alla fine, si tratta di una sua creatura fin dalla denominazione: la Lega per Salvini premier.
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