È approdata in Consiglio dei ministri il 15 ottobre, in anticipo rispetto a quanto previsto, la legge di Bilancio 2025.

Il governo ha accelerato l’esame del testo della manovra, che va presentata alla Camera (da dove quest’anno parte la sessione di bilancio) entro il 20 ottobre. L’iter normativo porterà poi, entro il 31 dicembre, all’approvazione del ddl definitivo, per cui servono coperture per circa 30 miliardi.

Non tutte le risorse sono al loro posto ma una mano, come ogni anno, è arrivata dal decreto fiscale collegato alla manovra, che serve anche ad anticipare alcune spese (dall’adeguamento delle pensioni al bonus Natale) per liberare risorse. Dal Cdm è arrivato il via libera a questo testo e anche al Documento programmatico di bilancio (Dpb), la cornice della manovra inviata alla Commissione europea.

Negli ultimi giorni il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, aveva invitato gli altri ministri a fare proposte per tagliare «le spese inutili» dei dicasteri e degli enti pubblici. Ma sono diversi i ministeri, compresi quelli a guida leghista, che si sono opposti alla spending review del Mef, motivo per cui Giorgetti ha optato per tagli lineari del 5 per cento (da cui è però escluso il settore sanitario).

Se lo scorso autunno i parlamentari di maggioranza avevano il mandato di non presentare emendamenti per non stravolgere l’impianto della legge, è difficile che lo schema si ripeta anche quest’anno, alla terza manovra del governo Meloni. Lo hanno già fatto capire le schermaglie fra alleati delle ultime settimane, a partire dal tormentone sulle tasse e sugli extraprofitti.

Irpef a tre aliquote

Il governo ha confermato il doppio taglio di Irpef e cuneo fiscale, le misure simbolo della manovra 2024 e in scadenza a fine anno. I due provvedimenti, che insieme valgono circa 15 miliardi di euro, sono già coperti per oltre la metà attingendo al Fondo per la riduzione della pressione fiscale e a quello per l’attuazione della delega fiscale.

La riduzione delle aliquote Irpef da quattro a tre, ottenuta un anno fa con l’accorpamento dei primi due scaglioni all’aliquota più bassa del 23 per cento, vale 4,3 miliardi e riguarda 25 milioni di contribuenti nella fascia di reddito medio-bassa. A questi ha portato e porterà benefici fino a 260 euro l’anno, anche se va considerato il meccanismo del fiscal drag, per cui ciò che lo stato taglia in termini di tasse rischia di mangiarselo l’inflazione.

Taglio del cuneo

Giorgetti ha reso strutturale anche il taglio del cuneo fiscale, cioè la riduzione della differenza fra il lordo e il netto in busta paga. Una misura che oggi consiste in un taglio ai contributi Inps per 14 milioni di lavoratori (sostituiti da trasferimenti dal bilancio) e quindi «distorsiva per l’equilibrio previdenziale», come hanno notato Bankitalia e l’Ufficio parlamentare di bilancio.

A ciò si aggiunge la “trappola della povertà” denunciata in più occasioni dall’Upb, in cui cade il lavoratore il cui reddito si alza anche di poco rispetto ai valori soglia di 25mila e 35mila euro, che delimitano i confini del taglio del cuneo. Per questo l’azione del governo dovrebbe essere doppia.

Dal prossimo anno il taglio potrebbe restare contributivo per i redditi fino a 20mila euro, per poi trasformarsi in fiscale, con un aumento delle detrazioni per il lavoro dipendente fino a 35mila euro. A quel punto partirebbe un décalage, piuttosto rapido, fino a 40mila euro. Il taglio si trasformerebbe quindi da meno contributi a meno tasse (o sotto forma di bonus per gli incapienti).

Flat tax e concordato

È ancora incerto l’aumento della flat tax, l’aliquota sostitutiva del 15 per cento sulle partite Iva. Per accedere al regime forfettario, già scelto da 1,8 milioni di autonomi, bisogna avere ricavi annui inferiori a 85mila euro; ma nel 2024 ne può beneficiare anche chi resta sotto i 100mila euro, che confluirà nel regime ordinario dal 2025. La Lega vorrebbe ora stabilizzare la tassa piatta per i ricavi fino a 100mila euro: un’operazione ancora in forse che costerebbe almeno 500 milioni.

A questa incognita se ne aggiunge un’altra sul fronte delle risorse, a proposito dei proventi del concordato preventivo biennale e del ravvedimento collegato. Varando la misura, l’esecutivo sperava di raccogliere tre miliardi di euro. Un obiettivo che appare difficile da raggiungere nonostante gli incentivi, anche sotto forma di condono, a favore delle partite Iva.

La scadenza per le adesioni è fissata al 31 ottobre e la richiesta dei commercialisti, che vorrebbero rimandarla, sembra destinata a cadere nel vuoto. Se i fondi in arrivo dal concordato dovessero essere sufficienti, il governo potrebbe anche ridurre l’aliquota Irpef intermedia, che va fino a 50mila euro di reddito, dal 35 al 33 per cento.

Contributo dalle banche

La manovra prevede poi un contributo di solidarietà deciso con banche e assicurazioni, da cui si conta di recuperare 3,5 miliardi in due anni. A questo proposito, è stato escluso un aumento dell’addizionale Ires (gli istituti già pagano un’addizionale del 3,5 per cento in aggiunta all’aliquota ordinaria del 24 per cento) o un incremento dell’Irap (che dovrebbe restare al 4,65 per cento).

In cantiere c’è invece un contributo sulle somme portate ad aumento patrimoniale – e quindi non distribuite come dividendi – e la modifica delle norme che regolano le attività fiscali differite (Dta), i crediti d’imposta derivanti da perdite passate delle banche. Nella stessa direzione va anche la stretta sulla tassazione delle stock option che vengono concesse ai manager.

Del resto, è da tempo che Lega e Forza Italia litigano sull’idea di tassare gli extraprofitti. «Bisogna far pagare i banchieri», ha detto Matteo Salvini ricordando che negli ultimi anni il settore, grazie alla corsa dei tassi di interesse, ha quasi raddoppiato gli utili. Un’insistenza per nulla apprezzata da Forza Italia: «È roba da Unione Sovietica», gli ha risposto Antonio Tajani. Così l’ipotesi di una nuova tassa ha perso quota, sostituita da una forma di «contributo concordato».

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