Lo spazio di una riforma elettorale proporzionale «è stretto» secondo il ministro Andrea Orlando, è «molto stretto» secondo il ministro Lorenzo Guerini, all’apparenza una via così impraticabile che per provarci serve una robusta dose «di realismo», secondo il ministro Dario Franceschini, oltreché un consenso molto ampio.

A dieci mesi dal voto, cioè troppo tardi per le raccomandazioni europee. Ma è già un evento a suo modo clamoroso che il Pd decida di farci una riflessione. E che una segreteria solida, con lo scettro delle future liste in mano, accetti di discuterne. Succede in un seminario organizzato ieri alla Camera da Leftwing, la rivista della corrente giovani turchi, proporzionalisti da sempre in un partito nato con la religione del maggioritario. Introduce Matteo Orfini, in presidenza a dirigere i lavori c’è Fausto Raciti. C’è il fatto che le opposte coalizioni scricchiolano.

Dal lato sinistro c’è l’inconfessabile sospetto che il Movimento 5 stelle abbia iniziato le operazioni di sganciamento dal «campo largo» fin qui obiettivo degli ultimi due leader del Pd, che fin qui hanno considerato l’alleanza giallorossa «ineluttabile». Dal lato destro c’è la competizione dall’esito poco prevedibile fra FdI e Lega e le tentazioni di Matteo Salvini.

Ma metterla sul piano delle convenienze di parte, per la parte svantaggiata ai sondaggi – il centrosinistra – sarebbe la strada giusta per il fallimento. E infatti il “position paper” offerto alla base del confronto propone un’analisi più impegnativa, almeno per il Pd che ha nel maggioritario un mito fondativo. Un mito secondo cui quel sistema, anzi questo in vigore, doveva risolvere al vincitore «gli antichi problemi dell’instabilità dei governi e della frammentazione politica». In questi trent’anni, dal 1992, e dal Mattarellum in avanti, è un fatto incontrovertibile «che le cose non sono andate nella direzione auspicata», spiega Orfini.

La nuova stagione

Il maggioritario è stato usato per il racconto della nascita della Seconda Repubblica, per la «demonizzazione postuma di un’intera stagione politica», con il maggioritario «si cercò di aprire una stagione nuova che avrebbe prodotto la soluzione della crisi», un «cambio di sistema» che avrebbe portato con sé «elementi salvifici».

E via con i luoghi comuni, sempre puntualmente smentiti dai fatti: «La sera delle elezioni si deve sapere chi governo», il «bipolarismo competitivo, la fine della frammentazione, i due grandi poli, la fine del trasformismo». La realtà è irriducibile al «regolismo». Infatti è successo il contrario ed è finita spesso, anche se non sempre, che le crisi hanno portato a larghe intese in tutte le versioni possibili, fino all’attuale. Per Orfini non si tratta di riproporre «l’ideologia del proporzionale» contro «la religione del maggioritario».

Sistema che comunque oggi, con il taglio dei parlamentari accettato dal Pd per far nascere il governo Conte II, porta dritti al disastro. E non si tratta di negare la differenza fra centrosinistra e destre, ma di darsi uno strumento per avere partiti più forti e «rimettere al centro il parlamento». Per Orlando non si tratta neanche di rinunciare alla «vocazione maggioritaria del Pd», «i grandi partiti tedeschi l’hanno espressa con il proporzionale». I tre ministri sono d’accordo.

Nel Pd l’argomento ancora non è pacifico. Ma a fare la differenza fra una discussione accademica e un possibile fatto politico è la presenza di Marco Meloni, il coordinatore della segreteria di Letta, assente perché in Veneto per precedenti impegni. Letta resta un convinto maggioritarista, ma apre la porta all’approfondimento. L’analisi di Meloni sui trent’anni scorsi non coincide con quella di Orfini, comunque «la riflessione è opportuna» e però bisogna fare attenzione i governi locali, anche quelli che proposti alle prossime amministrative, fondati in stragrande maggioranza su alleanze Pd e M5s.

Destre contro

Insomma, bisogna stare attenti a non buttare «i punti di collegamento tra le forze riformiste, di centrosinistra, progressiste, e ciò che le unisce, pur con diversi livelli di intensità». Dalla sinistra ai grillini. «Siamo consapevoli delle difficoltà a mettere insieme soggetti che hanno una impostazione di fondo anche distante, ma anche soddisfatti di aver riaperto la possibilità che in un confronto tra coalizioni, nel quale la nostra è competitiva e capace di prevalere».

Nella pandemia e persino sulla guerra della Russia, dove si sono segnate a sinistra le distanze più serie, resta che dall’altra parte ci sono i nazionalisti. Il pentastellato Giuseppe Brescia, presidente della commissione affari costituzionali della Camera, invita a ripartire dal testo già approvato in commissione (e bloccato dal no di Iv). L’obiettivo non è facile ma per Franceschini la chiave è offrire alle altre forze politiche «un ragionamento che mette insieme ragioni strategiche e contingenti», «Non è meglio avere una campagna elettorale vera, piuttosto che una campagna finta tra due schieramenti» senza «garanzie che poi queste alleanze non si scompongano dopo il voto?».

Cruciale che lo capisca Forza Italia, quella che ha più da perdere. Ne è convinto anche Zingaretti, che però chiede «un robusto sbarramento» che non metterà di buon umore gli alleati più piccoli. Che però non sono il masso sulla strada. Il masso è Salvini. Che ieri attaccava di nuovo Giorgia Meloni. Domani però, chissà.

 

 

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