A Meloni serve un plebiscito personale se FdI frenasse, Schlein cerca la maggioranza a Bruxelles. Il leghista alle prese con la trasformazione della Lega nell’Msi. I grillini e la partita delle alleanze
A rischiare di più, nel voto di sabato 8 e domenica 9, è l’eterna, indivisibile suo malgrado, coppia gialloverde. Giuseppe Conte, all’opposizione, e Matteo Salvini, nella maggioranza, sono i due leader che aspettano con più ansia i risultati. Invece Giorgia Meloni può dormire fra sette cuscini, giurano i suoi. Ed è vero, anche al netto della propaganda.
La giornata di venerdì, chiusura della campagna elettorale, per la premier è stata funestata dal caso Signorelli (il capo dell’ufficio stampa del ministro e cognato Lollobrigida, che si è autosospeso dopo la pubblicazione di alcune sue chat del 2018 con sproloqui antisemiti). La scia nera del passato è un’ombra che insegue sempre la leader Fdi. E lei sa bene che è un tema spinoso. Ma dal risultato delle europee non si aspetta sorprese negative, giurano gli stessi.
Il plebiscito copre la frenata
Intanto è sicura di un plebiscito sul suo nome, piazzato a capolista delle cinque circoscrizioni. Nel 2019 ha preso 490mila voti. Da questa tornata si aspetta di andare oltre il raddoppio. Del resto ogni candidato, dalle Alpi alla Sila, ha scritto il suo nome nel santino.
I veterani delle campagna elettorali le hanno anche assicurato che il risultato sarà sopra il 26 per cento, quello delle politiche: Fdi non arriverà all’ambìto 30 per cento, ma crescerà perché – spiega uno di loro – «l’astensionismo premierà i partiti strutturati sul territorio, noi e il Pd».
Comunque il dato del 2019 consentirà l’esultanza: era il 6,4 per cento. E tutto sommato, è la confidenza degli stessi veterani, «è meglio che la crescita sia lenta, ci dà il tempo di ragionare. Meglio così che passare dal 20 per cento al 40 e poi cadere a terra».
Il riferimento è al Pd di Matteo Renzi, ma la Lega e il M5s sono altri esempi di discese ardite senza risalite. Meloni sarà l’assopigliatutto di liste deboli. Le performance migliori si aspettano da Carlo Fidanza al Nord-Ovest, Nicola Procaccini al Centro (è sostenuto anche da Fabio Rampelli), al Sud dall’ex leader di Azione universitaria Nicola D’Ambrosio, dal calabrese Denis Nesci e dal fittiano Francesco Ventola. Nelle isole il derby interno è di quelli sanguinosi: il meloniano Massimiliano Giammusso se la vede con l’ex assessore alla sanità Ruggero Razza, di osservanza Musumeci.
Difficile comunque immaginare un risultato che metta a rischio il governo. Un crollo della Lega – a cui però i sondaggi assegnano una sostanziale tenuta – può produrre qualche strattone. Ma nessun pericolo «Papeete». Per Meloni c’è piuttosto da sorvegliare oltralpe il risultato di Marine Le Pen, l’aspirante concorrente alla leadership delle destre europee. Ma, viene spiegato, «Le Pen è ancora destra radicale, certo sta provando a collocarsi più al centro, come ha fatto Giorgia, ma il sistema francese, se non trova un’alleanza, non glielo permetterà».
Salvini e la «linea sputtanata»
Il più in ansia, dunque, sono i due della coppia gialloverde. Matteo Salvini in ogni caso deve misurarsi con l’inclemente 34 per cento dello scorso giro. Oggi, per acciuffare le due cifre, punta sul risultato della sua creatura Roberto Vannacci, a cui ha fatto una campagna elettorale senza limiti (anche di decenza).
Cosa che però ha fatto imbufalire gli altri candidati del Nord, anche perché, spiega uno di loro, «alla fine i nostri sono dei soldati, se Salvini dice di votarlo, lo votano».
Le ipotesi sono tre: se la Lega prende la stessa percentuale delle politiche, ci viene spiegato da uno di loro, «a Vannacci abbiamo regalato un seggio e l’operazione è a saldo zero»; e Salvini dovrà risponderne. Se bordeggia il 10 per cento, Salvini dirà che il partito è stato salvato da lui (e dal generale); la terza ipotesi è che Forza Italia salga sopra la Lega, ma è l’ipotesi così fosca che le conseguenze oggi sono inimmaginabili.
Resta che il Nord ribolle per tornare a «fare la Lega Nord e non il nuovo Msi», e anche in caso di non-sconfitta, Salvini (e il suo fedele Lorenzo Fontana) saranno chiamati a rispondere «dello sputtanamento della linea politica».
Conte, Schlein e una chitarra
Da quest’altra parte, Conte sa che la competizione per Bruxelles non è quella in cui il M5s dà il meglio. Il resto sono errori suoi: liste deboli, pochi big, la polarizzazione fra Meloni e Schlein che lo ha tagliato fuori dalla mischia. Il precedente 17 per cento è inarrivabile. Non il 15,6 delle politiche. Ma se non entra neanche questo risultato, non c’è la sua leadership in gioco: c’è l’alleanza con il centrosinistra. Che nelle ultime ore anche lui ha dato per possibile, annusando l’aria e capendo che è una rassicurazione anche per i suoi elettori. E per i suoi, che in due terzi delle città che vanno al voto in questa stessa tornata hanno stretto alleanze con il Pd e i rossoverdi.
Un risultato troppo penalizzante rischia però di scatenare una reazione di orgoglio. Come alle amministrative del 2022: il flop – e alcuni dispetti del Pd e di palazzo Chigi – convinse l’ex premier a togliere l’appoggio al governo Draghi, e cancellare qualsiasi prospettiva di campo largo alle politiche.
Oggi sull’alleanza Schlein scommette: la missione della sua segreteria, dopo essersi messa in sicurezza, è riportare il Pd al governo, e senza M5s la missione è impossibile. È ottimista: al punto da scherzarci su, cosa che fin qui non si era mai concessa. A Un Giorno da Pecora (Radio1) si è lasciata andare: «Abbiamo una notizia: entrambi suoniamo la chitarra, lui l’acustica ed io l’elettrica. A questo punto c’è una ragione in più per provare a costruire alleanze alternative alla destra che governa il Paese».
Dal canto suo, la segretaria Pd finisce la campagna elettorale molto più forte di come era entrata. Le basterà un risultato sopra il 20 per dissuadere gli avversari interni da fantasie di guerriglia. Ma c’è un’insidia, ed è il risultato dei “suoi” candidati. L’ala riformista ha schierato nomi molto competitivi. La segretaria potrebbe non avere la maggioranza nella nuova delegazione europea.
A rischiare l’osso del collo sono invece le formazioni centriste. I sondaggi danno Azione sul filo del quorum, Stati uniti d’Europa poco oltre. Calenda e Renzi hanno stili e caratteri diversi: il primo patirebbe il fallimento, l’altro ha una carta di riserva eventualmente per risalire nelle quotazioni: far ballare il Pd al ballottaggio di Firenze. Per i due, comunque, il voto ha la funzione di primarie interne: si giocano il posto d’onore al tavolo della futura alleanza. Sapendo entrambi che Più Europa, pezzo forte della “lista di scopo”, sarà comunque della partita, con o senza Renzi (come lo fu prima con e poi senza Calenda).
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