- Il passato storico è ben presente nel discorso pubblico italiano. Il guaio è che, troppo spesso, è elemento decorativo non meditato, privo di profondità e prospettiva, ridotto a essere uno spazio mediatico in cui esercitare una proiezione di titillamenti contingenti.
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«I gravissimi problemi che da diverso tempo rendono difficile la ricerca storica in Italia a qualunque livello» sono stati di recente segnalati al ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Ne hanno scritto le associazioni che raccolgono gli studiosi dell’università, degli enti di ricerca, degli archivi, delle biblioteche e delle scuole secondarie, denunciando i numerosi e crescenti limiti posti alla consultazione di libri e documenti. Dovuti innanzi tutto alla decimazione del personale.
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Lo smantellamento di biblioteche e archivi è vicenda di grande momento, che nell’indifferenza generale disarticola l’impalcatura su cui si regge l’identità storica della nazione abbandonandola all’azione disordinata di agenti occasionali.
Non si dica che nel discorso pubblico italiano è assente il passato storico. Al contrario, è ben presente. Il guaio è che molto spesso, troppo spesso, è elemento decorativo non meditato, privo di profondità e prospettiva, ridotto insomma a essere uno spazio mediatico in cui esercitare una proiezione di titillamenti contingenti (il fascismo ha fatto anche cose buone? I piemontesi hanno fatto strage del Mezzogiorno? Dante era di destra? e via sfarfalleggiando, per non dire dei discorsi sul noi, sull’occidente, sul suo rapporto col resto del mondo, che sarebbero cosa molto seria mentre una guerra devasta le frontiere d’Europa e che scuola e dibattito pubblico per lo più non sanno affrontare).
Insomma, i discorsi sul passato rischiano di perdere i nessi con la conoscenza e la critica, con lo studio e la documentazione, procedure che incontrano sempre maggiori ostacoli. «I gravissimi problemi che da diverso tempo rendono difficile la ricerca storica in Italia a qualunque livello» sono stati di recente segnalati al ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.
Ne hanno scritto le associazioni che raccolgono gli studiosi dell’università, degli enti di ricerca, degli archivi, delle biblioteche e delle scuole secondarie, nei settori della storia medievale, moderna, contemporanea, denunciando i numerosi e crescenti limiti posti alla consultazione di libri e documenti. Dovuti innanzi tutto alla decimazione del personale – che in genere non raggiunge la metà degli organici e la cui età media è sempre più prossima alla pensione – che porta alla restrizione degli orari di apertura o dei pezzi consultabili, alle più farraginose procedure, al mantenimento di molte chiusure dell’epoca Covid, alle difficoltà, a volte all’impossibilità, di acquisire e conservare nuovo materiale.
L’archivio storico della Fai
Il caso ha voluto che pochi giorni prima che gli studiosi lanciassero il loro cahier de doléances, sulla scia del caso Cospito e dei dibattiti sull’effettiva pericolosità delle organizzazioni anarchiche, l’onorevole Federico Mollicone, tra i fondatori di Fratelli d’Italia, oggi presidente della commissione Cultura, scienza e istruzione della Camera, durante una trasmissione televisiva abbia denunciato «una sorta di tolleranza» di cui gode in Italia il movimento anarchico e abbia dichiarato l’intenzione di chiedere la cancellazione della «dichiarazione di interesse storico» attribuita all’Archivio storico della Federazione anarchica italiana.
Ha sostenuto che l’archivio non è solo «storico» perché raccoglie anche materiale recente. Le società storiche si sono trovate allora nell’imbarazzante situazione di dover ricordare a un presidente della commissione Cultura che cos’è un archivio storico, che nasce per stratificazione di documenti, cosicché il materiale corrente è per sua natura destinato a diventare materiale storico (e a qualcuno è noto che il movimento anarchico ha solide radici ottocentesche, che precedono la nascita del socialismo), nonché in cosa consista la dichiarazione di interesse, che implica non certo una adesione ideologica all’eventuale orientamento del materiale tutelato, bensì una sorveglianza pubblica degli archivi privati.
È dunque in questione il nesso tra memoria storica, ricerca, biblioteche e archivi. Su questo terreno, la cronaca rivela la convergenza di elementi diversi. Infatti gli orientamenti politici e la fragilità culturale della destra oggi al potere – del resto democraticamente rappresentativa del sentire degli italiani – incarnano e semmai perfezionano processi di più lungo periodo e che certo non si sono concretizzati nei cento giorni meloniani. Basti dire che il ministero competente, caso assai raro nella storia repubblicana, è stato retto per molti anni quasi ininterrottamente dallo stesso titolare. Di nome Dario Franceschini, inteso “di sinistra”, oggi innovatore schleiniano, il ministro evidentemente non aveva tra le sue priorità il far argine alla destrutturazione che andavano subendo le istituzioni pubbliche. Non si tratta perciò di destra o di sinistra.
Il patrimonio bibliotecario
L’incultura di cui la gran parte del ceto parlamentare indistintamente non esita a far sfoggio è del tutto coerente con la scarsa o nessuna cura rivolta dalle istituzioni al patrimonio archivistico e bibliotecario del paese. Se non si tratta di destra o di sinistra, tuttavia, alla destra oggi regnante, che ama parlare di nazione, gioverebbe conoscere i materiali di cui è stata fatta essa nazione, il cui farsi è stato scandito dalla valorizzazione di un ricchissimo patrimonio librario e archivistico disseminato nelle cento città italiane.
Basti dire che oggi le biblioteche in Italia sono 7.459, tra antiche e moderne (e occorre forse precisare che il 60 per cento degli oltre sette milioni di italiani nel cui paese, o città, non esiste una biblioteca vivono nel Mezzogiorno?). Costruire la nazione volle dire riorganizzare il sistema attorno alle biblioteche “nazionali” – nelle quali deve trovarsi tutto ciò che è pubblicato nel paese – dotarlo di sistemi di conservazione comuni e di personale adeguato, nonché costruire un ordinamento archivistico, centrale e provinciale, grazie al quale ogni capoluogo di provincia deve avere il suo archivio di stato, archivio della comunità dove vanno riversati dopo un certo tempo tutti i documenti prodotti dagli uffici pubblici, dagli enti ospedalieri, dalle scuole, dagli istituti di beneficenza, e così via.
Fu un cantiere monumentale, da porsi accanto alla costruzione degli apparti pubblici, delle infrastrutture, dell’ordinamento scolastico, l’intelaiatura statale che ha costituito la “nazione”. In epoca di “autonomia differenziata”, ricordiamo infatti alla destra patriottica che così, sulle strutture dello stato, si è formata la nazione. Il sistema, nel 1875 non a caso affidato al ministero dell’Interno, un secolo più tardi, dopo che nel 1963 fu varata una legge organica, fu guidato nel 1976 da un apposito ministero, appunto il ministero dei Beni culturali, al quale toccò non solo la sua valorizzazione ma in regime ormai democratico anche la sua apertura alla società e alle ricerche. Proprio quell’apertura che oggi è gravemente minacciata. Più ancora dei suoi raccordi centrali, è nella sua ramificazione capillare che scorre la linfa della nazione, ed è lì, dove il pensionamento degli ultimi addetti può significare la chiusura di una istituzione, è lì che più gravi sono le conseguenze del salasso degli organici e delle dotazioni: non a caso, dagli esempi di cittadine provinciali prendono le mosse le indagini di chi ha condotto ricerche accurate in materia, come ha fatto un valente giornalista, Francesco Erbani.
Smantellare tutto
Lo smantellamento di queste strutture è vicenda di grande momento, che nell’indifferenza generale disarticola l’impalcatura su cui si regge l’identità storica della nazione abbandonandola all’azione disordinata di agenti occasionali. Il passato storico è allora affidato al discorso improvvisato dei media, oppure a depositi documentari “privati” (si pensi agli archivi aziendali, a quelli dei quotidiani, o di partiti, sindacati e movimenti, del terzo settore, che le sovrintendenze non riescono a raggiungere), o ancora alla globalizzazione digitale. Altro tema cruciale, quest’ultimo, giacché, incoraggiata dalle chiusure Covid, ha fatto ovunque grandi progressi la digitalizzazione del materiale, un’opera gigantesca, appunto globale, che ha enormemente ampliato la consultabilità di documenti e opere a stampa. Così globalmente dilatati, i circuiti della ricerca perdono però il loro carattere democratico, vedono cioè indebolirsi il loro dialogo con la società, cessano di essere luoghi animati del confronto critico, dello scambio culturale. Incentrandosi su più ristretti circuiti di studiosi tecnologicamente dotati, fanno d’altra parte dipendere la ricerca dalle politiche di classificazione e selezione del materiale. Caso esemplare nel nostro paese quello dell’archivio della Banca d’Italia, istituzione benemerita che ha promosso ottimi studi e che certo non sente il peso dei limiti finanziari, ma che ha deciso di aprire alla consultazione fisica degli studiosi solo ciò che dei suoi archivi non è accessibile in rete.
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