Ma quale eroe, via le sue statue dalle nostre piazze». Non è trascorso molto tempo da quando i manifesti della Lega secessionista di Umberto Bossi incitavano al rogo dell’effige del generale Giuseppe Garibaldi, il comandante rivoluzionario dell’impresa dei Mille, l’eroe risorgimentale che nel 1849 aveva tentato di rovesciare l’ormai logoro potere temporale dei papi.

Per correre a difesa di Roma repubblicana, un giovane di vent’anni con indosso la sua fiera camicia rossa da garibaldino, tale Goffredo Mameli (autore di un Canto degli italiani destinato a una certa fortuna) sulle mura della città di Pio IX ci aveva rimesso la vita, in nome della libertà della patria e della giustizia per tutti i cittadini, perché nessuno dovesse più subire, nei secoli a venire, la vergogna e l’oppressione della tirannide.

L’entusiasmo della gioventù che infiamma i cuori rivoluzionari di chi patriota lo è realmente (perché come scritto da Mazzini si batte anche contro la propria patria se questa opprime altre patrie); il sogno che guida la meglio gioventù sotto la bandiera dell’insurrezione internazionalista in Italia, e poi in Grecia, in Francia e ancora in Sudamerica. L’uomo di “leggendarie vittorie” capace di rialzarsi ad ogni sconfitta, che offre a Carlo Alberto “la sua “spada gloriosa” prima che il re lo minacci di arresto.

Ci sarebbero tanti modi per rendere onore all’impresa garibaldina che convinse alla scelta rivoluzionaria una generazione intera, rovesciando tutti gli accordi diplomatici in nome di un sogno: un nuovo mondo possibile all’orizzonte, a partire dal viaggio da Marsala al Volturno.

Il suo mito viaggia nel tempo fino all’irrompere di un’altra guerra fra il 1943 e il 1945, quando altri giovani, guerriglieri clandestini alla macchia nelle Brigate Garibaldi, incidono il loro atto di rivolta partigiano, di disobbedienza radicale contro il potere fascista, ispirandosi proprio a «quell’uomo d’azione e di coraggio, che aveva avuto tanta fede in sé, nella bontà e nella forza delle sue idee» (come scritto da Carlo Rosselli in esilio, nel 1926). Chissà se al momento di cantare a squarciagola l’Inno nazionale chi rilegge la storia a uso e abuso continuo, si ricorda di questi piccoli dettagli.

Certo si dirà che è passato del tempo da quando a scuola si studiavano le vicende del nostro Risorgimento nazionale (magari qualche lezione la si è pure saltata) e che i leader leghisti sono molto cambiati da quando si auguravano che la figura del comandante mandato in esilio a Caprera fosse rimossa dai libri di storia, perché retaggio di «una sciagura» soprattutto «a nord, in Padania», nemmeno si fosse trattato di un brigante.

Probabilmente Mario Borghezio ha rivisto il suo profondo giudizio storico di “coglione” riguardo all’eroe rivoluzionario dei due mondi. Ma per capire se tali argomentazioni sulla storia patria hanno avuto o meno effetti di lunga durata, forse vale dare un’occhiata a ciò che accade nel mondo del web. Perché da qualche anno spopola in internet un campionario di fake news neoborboniche che sembra rinfocolarsi proprio nelle contro narrazioni del dibattito pubblico.

Distorsioni, manipolazioni del passato, miti e luoghi comuni di una certa persistenza come quello di una presunta età dell’oro che nei secoli aveva segnato il Regno delle due Sicilie, fiorente meraviglia cattolico-legittimista (nel segno del diritto di sovrani di uccidere, per potere divino) distrutto e saccheggiato dall’invasione delle truppe piemontesi a suon di stragi di civili (l’esercito di Cavour viene paragonato nientemeno che alle truppe naziste di Hitler) e di complotti di miscredenti e senza Dio.

Un revisionismo in cui i briganti diventano novelli Che Guevara pronti a difendere il sud dall’invasione di orde straniere e in cui l’esercito di Garibaldi, guidato dal povero Nino Bixio, si trasforma in un’accozzaglia di criminali pronti alla guerra d’aggressione e al genocidio.

Risentimenti, frustrazioni che gridano a un non risolto rispetto all’identità nazionale di un paese smarrito, che parlano di invenzione della tradizione.

Tra le immagini diffuse sul web una bambina alza il dito medio, con la faccia irriverente, proprio davanti al busto di Garibaldi, in un Museo di Napoli. Forse genitori e insegnanti potrebbero farle visitare il Vittoriano, l’Altare della patria inaugurato nel 1911 per celebrare i 50 anni dell’Unità d’Italia, intitolato a sua maestà re Vittorio Emanuele II, dove sta scritto: «Per l’unità della patria, per la libertà dei cittadini».

Di certo è ora che gli storici prendano parola nel dibattito pubblico, se non altro per rimettere a posto i pezzi di un passato distorto, in un paese che soffre di cattiva memoria e di scarsa o nulla conoscenza del passato.

Magari qualcuno si ricorderà che quel processo di unificazione, concluso nel 1861, non fu semplicemente concesso da un sovrano o dalla sola iniziativa monarchica di Cavour o di Casa Savoia, ma fu il riscatto di una guerra di popolo.

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