- Non si faceva cenno alla Rai nelle “121 Iniziative per il rilancio Italia” del Rapporto Colao per il premier Giuseppe Conte nel giugno dello scorso anno.
- Le “crisi” della Rai fanno notizia quando la distribuzione di posti non soddisfa tutte le “forze politiche” vecchie e nuove.
- Ma la crisi vera è quella delle prospettive editoriali e industriali che i piani finora abborracciati hanno trascurato.
L’irrelC’erano l’attesa e gli interrogativi delle “grandi decisioni” nel (piccolo) suspense mediatico centrato fino alle otto del mattino di ieri sulla Commissione parlamentare di indirizzo e vigilanza chiamata a esprimersi sulla scelta del presidente del servizio pubblico radiotelevisivo indicato dal governo (la nomina di Marinella Soldi è stata ratificata con 29 voti favorevoli, 5 no e 3 schede bianche ndr). Mentre tutti sappiamo, invece, quanto la Rai – che cosa fa e quanto avviene al suo interno – sia divenuta irrilevante nella società e nell’economia italiane, nei termini e ai fini delle scelte e degli obiettivi di sviluppo immediato e strategico, socio-culturale ed economico, che da poco più di un anno due governi (finora) e il parlamento stanno cercando di definire e di indicare al paese.
Un affare per i partiti
Non è cosa di oggi l’irrilevanza della Rai, né ha a che fare con il governo presieduto da Mario Draghi. Non se ne faceva cenno nelle “121 Iniziative per il rilancio Italia 2020-2022 del Rapporto Colao” che il premier Giuseppe Conte nel giugno dello scorso anno ha posto alla base degli “Stati generali dell’economia” da lui convocati a Roma. In quel Rapporto la Rai non era fra le «infrastrutture di interesse strategico» del paese – un settore «principalmente pubblico» (si teneva a ricordare) quanto a «logiche e fonti di funding» – e nemmeno era nominata, la concessionaria, nel paragrafo “Investimenti e concessioni”, accanto ai settori autostrade, gas, geotermico e idroelettrico.
Nessuno, in quei nove giorni e nelle settimane e nei mesi successivi, ha fatto notare quell’assenza fra i temi e fra gli invitati a palazzo: non il premier, nessun ministro né partito di governo o di opposizione, nessuna componente né il presidente della Commissione parlamentare, non gli organi dirigenti della stessa concessionaria (presidente, cda, ad) – insomma, nessuno di tutti questi, ha fatto presente, allora e dopo, che con la Rai, il suo ruolo e i suoi compiti e possibilità ai fini dello sviluppo generale, risultavano obliterate le loro stesse responsabilità.
Eppure la Rai, in assoluta continuità fra la prima e la seconda Repubblica – pupilla degli occhi della nostra democrazia partecipata centrata sul parlamento, con tutte le maggioranze parlamentari e con tutti i governi – è da decenni “l’affare dei partiti”, all’ombra della riforma del 1975. Sicché le “crisi” della Rai – quelle che fanno notizia nei media – nascono quando la distribuzione di posti e ruoli in essa e attorno a essa non soddisfa tutte le “forze politiche” vecchie e nuove presenti in parlamento o addirittura, come in questi giorni, che risultano in testa nei sondaggi settimanali di opinione.
Screzi sovrastanti
Come se a presiedere e assicurare la libertà e l’autonomia dell’informazione, dei programmi e della produzione del servizio pubblico non fosse l’azienda stessa, con i suoi dirigenti responsabili, con i lavoratori, i professionisti, le forze produttive da essa organizzate e/o di cui si assicura l’apporto sul mercato, e ci sia bisogno in loco di un sovrastante (di un sovrastante per partito) perché tutto sia a posto. Nel silenzio tombale, anche in questa occasione, dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti della Rai, e dell’Associazione Articolo 21, che così efficacemente, nella società civile, hanno accompagnato in questi decenni il declino di una risorsa produttiva ed economico-culturale quale resta l’impresa Rai.
Cosa, bisogna dire, di cui si sono finalmente resi conto i partiti (domanda: quanti partiti ci sono nei partiti oggi?) che in questi stessi giorni – scritti e presentati, ciascuno e tutti, nei mesi scorsi in parlamento progetti di legge per cambiare radicalmente la governance (si dice così) della Rai – ne discutono in vista, evidentemente, di un’approvazione e, quindi, di un cambiamento radicale di leggi e prassi, in calendario nelle prossime settimane alla commissione Lavori pubblici e telecomunicazioni del Senato.
A indurli, finalmente, a muoversi sono i ritardi e le inadempienze (per tutti: il piano industriale e la riorganizzazione delle linee editoriali e produttive della televisione) della Rai attuale, da tempo alle prese con le scadenze relative ai nuovi assetti del sistema delle tlc e i cambiamenti che ne conseguono nella radiodiffusione, le nuove frontiere informative e formative offerte ai cittadini, alla società e alle istituzioni dalla digitalizzazione, gli obiettivi di servizio universale e di coesione sociale che tornano a imporsi alla presenza pubblica nel settore, come pure gli imperativi della riqualificazione delle risorse professionali e dell’offerta di programmazione ai pubblici della radiotelevisione, dell’uso produttivo delle risorse da canone (di tutte le risorse di questa “tassa di scopo”) che assicuri nuove opportunità di sviluppo a lavoratori, talenti e professionisti del nostro paese e la valida presenza dell’audiovisivo italiano sui mercati nazionali e internazionali.
Vittorio Colao oggi è un ministro, e non dei minori, del governo Draghi. C’è da augurarsi che i nuovi organi dirigenti della Rai espressi da governo e parlamento siano all’altezza della sfida e che una rinnovata e valida presenza culturale e industriale ponga l’impresa in mano pubblica fra i protagonisti della fase di riforme aperta oggi con l’avvio a realizzazione del Pnrr. È tempo che in questo settore, vitale (anche) per l’Italia, lo sviluppo delle forze produttive non sia più frenato o impedito dai rapporti di produzione.
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