- Il grande sogno di Berlusconi – l’immortalità – si è compiuto. L’epoca del suo trionfo non è la seconda Repubblica – l’età di Berlusconi – ma la terza – l’età del berlusconismo.
- Non c’è un carattere della terza Repubblica che non sia l’inveramento di quella pulsione oscena che ha sempre orientato la vita pubblica di Berlusconi. La sua vera eredità è la normalizzazione dell’osceno.
- Certo, Berlusconi è stato anche un vincente. Ma la sua forza non era quella di vincere rispettando le regole, ma di entrare nel gioco per stravolgerle. Non voleva soltanto vincere, voleva cambiare le regole del gioco. E ci è riuscito.
Bisogna dare atto che il grande sogno di Silvio Berlusconi – l’immortalità – si è compiuto, anche se non è riuscito a giungere ai centoventi anni che gli erano stati pronosticati dai suoi medici personali, e di questo ovviamente ci rammarichiamo tutti. Berlusconi sopravvive a se stesso, nella misura in cui i tratti osceni che egli ha introdotto caratterizzano la sua eredità, sia a destra sia a sinistra.
L’epoca del suo trionfo non è la seconda Repubblica – l’età di Berlusconi – ma la terza – l’età del berlusconismo. L’età in cui il fascismo non solo è legittimato ma sta al governo; il conflitto d’interessi non è più qualcosa da nascondere ma piuttosto da esibire con orgoglio come unico criterio da usare per selezionare le classi dirigenti; l’identificazione delle istituzioni con una persona non è una minaccia ma un progetto di riforma istituzionale; l’evasore fiscale è diventato un perseguitato di Stato.
Non c’è un carattere della terza Repubblica che non sia l’inveramento di quelle pulsioni oscene che hanno sempre orientato la vita pubblica di Berlusconi. Per questo bisogna soffermarcisi ulteriormente. Perché l’oscenità pubblica di Berlusconi è stata sistemica: non ha riguardato soltanto alcune parti delle forme della politica, ma la sua forma intera.
Se osceno è ciò che è escluso dalla visibilità e dalla luce, sta fuori dalla scena, l’eredità di Berlusconi è così ingente che oggi quell’irrappresentabile è diventato l’unica semiotica rimasta a nostra disposizione per interpretare i fenomeni politici. Osserviamoli i suoi eredi (a partire da quello che vorrebbe assomigliargli di più: Matteo Renzi). La loro convinzione è quella di aver rottamato i loro predecessori e di aver così sostituito i protagonisti della recitazione pubblica.
Ma non si sono accorti di essere comparse e che lo stupore di noi spettatori non riguarda loro, che mediocremente si affannano a ripetere la solita parte. Riguarda questo radicale cambio di scena, per cui ciò che prima appariva falso è diventato vero e ciò che prima era dato per vero adesso viene accusato del falso. È la normalizzazione dell’osceno ciò che occupa quotidianamente le nostre agende politiche, i nostri talk show televisivi dove si susseguono volti plastificati che esorcizzano l’invecchiamento e la morte, persino i rapporti pubblici e privati tra donne e uomini. L’osceno è diventato la scena della politica, e quella rappresentazione che chiamavamo politica è svanita. Mentre metà dell’Italia si affannava a difendere il presente, Berlusconi colonizzava il futuro. Cioè questo presente qui.
Certo, il giudizio storico va anche relativizzato. Ci sarà tempo per comprendere davvero il valore dell’eccezione berlusconiana, nell’ambito di un generale processo di trasformazione delle istituzioni democratiche che non ha riguardato solo l’Italia. La mia sensazione è che però la differenza berlusconiana non sia soltanto nell’ordine dell’estetica. Berlusconi non ha semplicemente ridotto a grottesco il dramma che ha consumato le democrazie europee negli ultimi trent’anni, mettendone a rischio la loro stessa sopravvivenza.
Con tutte le sue contraddizioni, l’età di Berlusconi ha rappresentato piuttosto un vero e proprio esperimento di trasgressione democratica. Esperimento che, una volta concluso, ha potuto fare a meno della propria cavia, senza neanche troppa gratitudine in fondo (se non quella un po' patetica di queste ore). L’età del berlusconismo non aveva più bisogno di Berlusconi, una volta dimostrata la debolezza degli anticorpi che abitavano le nostre democrazie, una volta compresa la possibilità concreta della rivoluzione passiva, come giustamente nota Nadia Urbinati.
Un’ultima notazione. Almeno un tratto della biografia pubblica di Berlusconi sembra mettere d’accordo tutti: era un vincente. Dalle sue imprese imprenditoriali a quelle sportive, dalla sua capacità seduttiva alla politica. Non si può negare. Ma ho come l’impressione che - se osservate con attenzione - le vittorie di Berlusconi si somiglino tutte. Ci sono infatti vittorie che vengono ottenute giocando meglio degli altri, rispettando le regole.
La forza di Berlusconi non era quella di vincere rispettando le regole, ma di entrare nel gioco per stravolgerle. Non voleva soltanto vincere, voleva cambiare le regole del gioco. Bisogna dargli atto che dovunque sia entrato in gioco, ha finito col trasformarlo. È questa la sua eredità più potente e inquietante al contempo: che alcuni di noi s’illudono di poter fare i giochi che c’erano prima, mentre ormai non ci restano altri giochi da giocare se non quelli che rispettano le sue regole. La sua perversione è diventata normalità, la nostra normalità perversione.
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