L’avvocato considerato la bestia nera del Movimento torna a mettere in difficoltà Giuseppe Conte con un nuovo ricorso contro le votazioni del 10 e 11 marzo e del 27 e 28 marzo scorsi, che hanno rispettivamente confermato il precedente statuto e la leadership di Giuseppe Conte
Otto attivisti hanno presentato un nuovo ricorso nei confronti del Movimento 5 stelle. Rappresentati dall’avvocato Lorenzo Borrè, ormai noto difensore delle ragioni di espulsi e critici del nuovo corso dei Cinque stelle, hanno impugnato di fronte al tribunale di Napoli la votazione dell’assemblea degli iscritti del 10 e 11 marzo e del 27 e 28 marzo scorsi, che hanno rispettivamente confermato il precedente statuto e la leadership di Giuseppe Conte.
Borrè è già coinvolto in un caso simile, dopo che ha presentato, per conto di tre attivisti, un ricorso nei confronti della votazione sullo statuto del Movimento presentato nell’estate 2021, illegittimo per una serie di vizi di forma, tra cui l’esclusione di una parte degli iscritti dal diritto di voto: in attesa di decidere sul merito, il tribunale di Napoli aveva congelato la legittimità dei vertici del M5s.
Una decisione che aveva messo in grave difficoltà soprattutto il presidente Giuseppe Conte, la cui elezione non era più riconosciuta. I Cinque stelle avevano provato ad appellarsi, ma il tribunale aveva confermato la propria decisione.
La seconda votazione
A quel punto, per rimettere in regola le cose, il Movimento aveva convocato una nuova assemblea degli iscritti per replicare la votazione sul nuovo statuto e sulla leadership di Conte.
Entrambi i voti di conferma hanno avuto esito positivo, ma il nuovo voto secondo Borrè è invalidato da una serie di altri vizi di forma, non del tutto sovrapponibili a quelli citati nel primo ricorso.
Nello specifico, il problema riguarda la convocazione dell’assemblea: a essere legittimati all’atto sarebbero stati soltanto il garante Beppe Grillo e il capo del comitato di garanzia, all’epoca il dimissionario Luigi Di Maio.
A marzo, però, le votazioni su SkyVote erano state organizzate da Conte, Vito Crimi e Paola Taverna «ciascuno nella propria qualità». Ma, secondo i ricorrenti e Borrè, nessuno dei tre avrebbe avuto i poteri per convocare l’assemblea.
Inoltre, dal voto erano stati nuovamente esclusi gli iscritti da meno di sei mesi: questa regola era stata all’origine del primo ricorso e il collegio del tribunale di Napoli nella sua ordinanza aveva spiegato che per escludere i nuovi membri sarebbe stato necessario un regolamento ulteriore.
Conte, interpellato a proposito, ha commentato la vicenda. «Loro si divertono così. Ci sono alcuni attivisti che danno il loro contributo al Movimento facendo ricorsi in tribunale. Noi invece ci impegniamo a far politica: ognuno ha il suo hobby». Lo ha detto rispondendo a Casal di Principe a Casa Don Diana, ai cronisti che gli chiedevano del ricorso presentato da attivisti napoletani in cui è stato richiesto l'annullamento delle votazioni di marzo. «C'è una controversia giudiziaria che va avanti per conto suo, io sono concentrato a far politica e impegnarci con uomini e donne che sono devoti al bene collettivo».
I prossimi passi
Il nuovo ricorso mette a rischio anche tutte le altre nomine delle altre cariche statutarie in quanto la candidabilità è stata ristretta ai soli iscritti eletti o ex eletti nelle istituzioni.
Intanto, il 17 maggio arriverà una nuova decisione del tribunale di Napoli a proposito della competenza sulla prima impugnazione: non si tratta di un giudizio nel merito, che potrà essere elaborato soltanto una volta che l’organo riconoscerà di essere competente sul caso.
Il nuovo ricorso si inserisce in una situazione già complicata per il Movimento, in cui il leader cerca di crearsi un profilo autonomo dal resto dal partner di coalizione Pd spingendo per una linea pacifista nell’ambito della consegna di nuove armi all’esercito ucraino. Contemporaneamente, deve risolvere il caso del presidente della commissione Esteri di palazzo Madama Vito Petrocelli, che continua a non volersi dimettere dal proprio incarico. Anche la scelta di contrattualizzare Grillo per 300mila euro l’anno a carico dei gruppi parlamentari non sembra ancora aver dato i propri frutti.
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