C’è un personaggio sporco, addolorato ma carico di dignità, fra i migliori di quelli interpretati dal compianto Alain Delon. Immortalato dal genio di Luchino Visconti, il protagonista di Rocco e i suoi fratelli è un ragazzo dal volto pulito, protettivo e amorevole verso una madre vedova, che nell’inverno del 1960 arriva a Milano dalla Basilicata con quattro dei suoi cinque figli.

Emigrati, strappati alla fame e alla miseria, per loro l’accoglienza fra le case popolari di una città in febbrile crescita non è delle migliori. E c’è una scena di quel film che mi ha sempre colpito molto: quando arrivati all’alloggio popolare, in un sottoscala buio, malsano, con acqua gelida per lavarsi in un gabinetto comune, la gente del caseggiato li osserva con disprezzo al suono di «guarda là, Africa».

È la storia di una doppia sconfitta: di un dramma famigliare e di un mondo che non sa rigettare al mittente odio e pregiudizio. Sentirsi stranieri in patria, tra insulti e discriminazioni: non è successo solo ai migranti italiani che partivano dalle terre del sud, negli anni del boom economico. E non succede solo a chi arriva nel nostro paese, per cercare rifugio e asilo o per ricongiungersi ai propri cari, dopo aver attraversato il mare per non morire di carestia o di guerra. Per chi vorrebbe riportare indietro le lancette della storia (proprio come nel Settecento qualcuno si schierava contro il suffragio universale) i diritti di cittadinanza sono negati persino a chi in Italia è nato e cresciuto. A chi conosce il dialetto al pari dei nostri bisnonni e a chi frequenta ormai da anni le scuole italiane.

Stereotipo bianco

Il dibattito sullo ius scholae di questo scorcio di fine estate non ha per niente appassionato gli italiani (tranne forse i pochi adepti che sotto l’ombrellone trovano ancora interessante sfogliare i giornali). E poi capita (come è accaduto a me, nel corso di una cena) di ritrovarsi a discutere con chi nello sport teneramente crede di poter racchiudere ancora un valido collante nazional-popolare o addirittura identitario. 

Certo, i “patrioti” seduti a quel ristorante trovavano molto confortevole tifare per l’altoatesino Jannik Sinner, cresciuto in una famiglia di madrelingua tedesca (prima di trasferire la propria residenza anagrafica e fiscale nel Principato di Monaco), che incoronare con il tricolore la veneta Paola Egonu, nonostante il trionfo olimpico per la nazionale di volley. Il murale a lei dedicato davanti al Coni di Roma, che doveva celebrare le sue italiane vittorie, è stato imbrattato con spray rosa a cancellare il nero della sua pelle. Sarà che «i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità», tanto per riprendere le parole di Vannacci.

Fatto sta che i due imprudenti commensali pensavano davvero che da «ottomila anni l’italiano stereotipato è bianco» (ma forse non avevano letto le vicende dell’antica gloria di Roma, che già nel I secolo a.C. concedeva la cittadinanza agli schiavi liberati, tutti nordafricani di Libia, Tunisia, Algeria). Chissà che avrebbe detto Benedetto Croce, quando cercava di spiegare cosa fosse quel guazzabuglio identitario per una penisola retta per miracolo al centro del Mediterraneo, incrocio di ceppi linguistici, culture, religioni, passaggi di eserciti, distruzioni e riconquiste.

Tradotto: attenzione che a forza di cercare le origini identitarie (per non dire somatiche) di un popolo si rischiano astrazioni mitologiche, anche piuttosto ridicole. Il carattere di un popolo non può essere estrapolato dalle sue vicende storiche e non è immutabile come le stelle fisse del paradiso di Dante.

Senza contare che l’identità si forma in rapporto allo sguardo esterno di chi ci osserva. Ovvero al modo in cui ci si autorappresenta o si difende la propria differenza rispetto all’identità altrui. Non a caso se si chiede agli studenti di Princeton «chi sono gli italiani» gli stereotipi sull’etnia prendono a bersaglio proprio noi: buoni, geniali, pigri, anarchici, saggi, santi e persino eroi.

Rispetto per il passato

Uno sguardo al nostro passato da popolo di migranti potrebbe aiutare se non fossimo un paese così smarrito e in preda a un continuo corto circuito della memoria. Non guasterebbe neppure un po’ più di rispetto per le storie dei cosiddetti “nuovi italiani” come quella di Danilo Kravets, che mi è capitato di intervistare per un documentario Rai.

Arrivato dall’Ucraina all’età di nove anni per raggiungere sua madre, infermiera in un ospedale della provincia umbra, quando mi racconta la sua storia, è ormai un uomo allegro, solare e molto caparbio. A far avverare il suo sogno, diventare cittadino italiano, è stato il presidente Sergio Mattarella, il 21 aprile 2022. «Caro presidente degli italiani, ma anche presidente mio, oggi di anni ne ho 24, qui in Italia ho frequentato le scuole fino alle superiori, di diplomi ne ho presi due, e l’italiano l’ho imparato subito e bene. Voglio essere italiano dalla prima volta che ho visto l’Italia. E mi scusi presidente, avevo dimenticato di dire che sono un ragazzo Down… ma questo è un dettaglio».

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