Le azzurre del volley e il loro allenatore ci hanno ricordato che l’identità italiana è plurale. Ma è come se l’Italia non si rendesse conto della ricchezza che possiede e talvolta a cui rinuncia. Occorre dimostrare una semplice equazione: è possibile rimanere sé stessi pur nella diversità
Dobbiamo aggiornarci: gli italiani non sono soltanto più quelli di ieri, sono cambiati. L’identità nazionale ha mutato volto ma con un mix di vecchio e nuovo che deve interrogare la nostra cultura, sia quella alta letteraria che quella popolare e quotidiana. Per l’Italia l’immagine conclusiva delle Olimpiadi è stata la bellissima finale di volley femminile. Prima di tutto complimenti sportivi: in tutto il torneo le nostre azzurre hanno perso un solo set, una dimostrazione di potenza e bravura fuori dal comune. Quella squadra viene portata ad esempio di una nuova Italia in cui l’identità si è fatta multipla e plurale. Lo stesso si può dire di molti altri sport. Ma non è tutto.
Dobbiamo guardare bene all’allenatore, Julio Velasco: un argentino che, pur non essendo un italo-discendente (padre peruviano e madre di origine inglese), porta con sé molta Italia, un po’ come tutti gli argentini. Lo si sente nel suo eloquio: un perfetto italiano con l’accento dolce degli argentini.
Solo per fare un altro esempio: Luis Maria Martinel Ferreyra che guida la Società Dante Alighieri (SDA) di Rosario – la seconda città argentina e la più “italiana” di tutte –, è di origine luso-brasiliana ma provate a dirgli che non è abbastanza italiano… Proprio in quella città Andrea Riccardi presidente della Dante Alighieri ha voluto celebrare un anno fa il congresso internazionale della SDA e non sembrava di stare all’estero.
Soft power nazionale
Allora ci chiediamo: cos’è l’identità italiana oggi? Come tutte le identità ha qualcosa di antico e qualcosa di nuovo che la cambia in continuazione, pur conservandola uguale a sé stessa. Italiano è termine più vasto del sangue e del suolo che ci divide polemicamente. Dopo la vittoria delle azzurre abbiamo ascoltato parole rozze e primitive, non degne di essere ricordate. L’identità italiana è speciale e si può avvicinare forse solo alla cultura e alla storia, quelle di ieri ma anche di oggi.
È così da sempre: si parlava di Italia e italiani anche quando non esisteva il concetto politico di Italia, come al tempo di Dante.
«Ho sempre pensato e sentito che una delle ragioni per cui il nostro paese, l’Italia, ci è così cara è in un suo carattere fondamentale che le deriva da tutta la sua storia... che si potrebbe definire come il senso della infinita contemporaneità del tempo: la presenza e persistenza cioè in essa …di tutti i tempi, di tutta la storia». Così scriveva Carlo Levi sugli italiani. E aggiungeva: nel nostro paese «l’antico non muore nel presente». Tale compenetrazione è presente da sempre ma dobbiamo riscoprirla ogni volta.
Aprendo gli occhi si scopre che l’identità italiana è un continente che si allarga tra lo Stivale e il mondo. Si tratta di un continente composito: i quasi sei milioni di italiani con passaporto residenti all’estero; gli 80-150 milioni di italo-discendenti (o forse più: alcuni stimano fino a 250 milioni) assieme a coloro che si riconoscono nella nostra cultura e lingua, che le “sentono” e in qualche modo le vivono.
Questo va ben oltre lo stato e la cittadinanza giuridica. Come sappiamo l’Italia è uno stato giovane ma un popolo antico che ha attraversato le frontiere e ha lasciato tracce in universi lontani, si è integrato ovunque allargando ogni volta la propria identità. Quest’ultima ha una caratteristica particolare: è vissuta come un processo, una relazione e non tanto come un modello etnico (come invece fanno altri popoli europei). In tale relazione che ha il sapore dell’universale non c’è nessun obbligo né imposizione: viene liberamente scelta. Andrea Riccardi la chiama “italsimpatia”.
In un tempo in cui domina la geopolitica e tutti cercano con ansia nuove frontiere di identità, in cui si scavano fossati e si innalzano muri, il soft-power italiano va comunque controcorrente. Sarà pure vero quello che dice la ricerca dell’università di Urbino e LaPolis, e cioè che gli italiani vogliono più muri e frontiere. Ma la realtà del nostro paese è che è uscito fuori da sé stesso già da molto tempo e le inchieste non possono cambiare tale dato di lungo periodo, perché fotografano soltanto un momento emotivo.
Come scrive Alain Minc: «L’Italia è il primo soft power che il mondo abbia conosciuto e la cui stella non ha cessato di brillare da secoli. L’Italia», prosegue Minc, «è una cultura-nazione; cultura dunque lingua (la stessa da un millennio dice Eco), cultura dunque arti plastiche, letteratura, cinema. In un mondo in cui il soft power sopravanza ogni giorno di più l’hard power, l’Italia non è destinata alla marginalità, anzi: di fronte ai processi della globalizzazione il suo Dna è più solido degli altri». Aggiungerei alle arti plastiche e al cinema anche lo sport.
I vari universi d’Italia
Per aggiornare la nostra visione collettiva sull’identità italiana dobbiamo sapere che i mondi dell’italiano sono almeno quattro: gli italiani d’Italia (più i ticinesi se si vuole…); gli italo-discendenti con tutte le loro articolazioni e ricchezze culturali; i nuovi italiani (immigrati o discendenti di immigrati) e infine gli italo-simpatetici o simpatizzanti – qualcuno li chiama italici –, cioè italiani di cuore o per scelta culturale.
Tra questi universi non tutto è andato sempre liscio, soprattutto tra italo-discendenti e nuovi italiani. Ad un certo punto sembrava quasi che fossero contrapposti, che uno dovesse escludere l’altro: ius sanguinis vs ius soli. È una miope scelta politica quella di opporre tali universi, creando una concorrenza su chi abbia più diritto di ottenere il titolo di apparenza all’identità italiana.
Purtroppo tale competizione è sostenuta più o meno apertamente da vari pezzi delle istituzioni e dell’amministrazione nazionale, a copertura di miopi interessi burocratici, settoriali o corporativi. Se guardiamo ai fatti da vicino scopriamo che in realtà entrambi gli universi sono stati trattati (male) allo stesso modo. Un cittadino straniero residente regolarmente in Italia (o addirittura nato nel nostro paese) ha difficoltà ad accedere alla cittadinanza (non è vero che sia automatica a 18 anni o dopo 10 anni di residenza…) e per ottenerla deve compiere un percorso pieno di ostacoli burocratici vessatori e inutili.
Ma anche gli italo-discendenti hanno lo stesso problema quando chiedono di usufruire del loro diritto di sangue al passaporto: transitano per un simile tragitto irto di intralci. Per entrambi ben oltre dieci anni di attesa… talvolta anche venti, molto al di là di ciò che dice la legge in entrambi i casi. Entrambi subiscono la medesima umiliazione: fare lunghe file davanti alle questure o ai consolati…
Una patria grande
È come se l’Italia non si rendesse conto della ricchezza a cui rinuncia. Talvolta ci chiediamo: l’Italia politica ne è davvero consapevole? C’è da chiedersi se questa non sia una chance inattesa davanti a un mondo che cambia.
Dovunque sta tornando un nazionalismo ombroso e diffidente che provoca conflitti.
Patriottismo è amare il proprio paese ma nazionalismo è odiare o almeno diffidare delle patrie altrui. In un mondo siffatto c’è bisogno di un esempio alternativo che dimostri una semplice equazione che sembra essere scomparsa: è possibile rimanere sé stessi nella diversità e convivendo con altri. Il mondo italiano potrebbe rappresentare un esempio di tale esigenza: sé stessi anche se dispersi in tanti luoghi, anche se mescolati con altri, anche se originari di posti diversi.
Lo specifico dell’umanesimo italiano che vive di storia diventa allora uno spirito di convivenza. Una sola grande rete anche se lontani, uniti dalla cultura e dalla lingua in un mondo che separa. Esprime la forza della nostra cultura storica: una patria grande. Senza nemmeno volerlo, con la loro forza le azzurre del volley e il loro allenatore ce lo hanno di nuovo rivelato.
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