Il ministro ha promesso una soluzione sull’ex Ilva, ma non è stato completato il piano nazionale per la siderurgia. Dall’innovazione alla cucina, all’appello mancano tanti decreti attuativi per la legge sulla produzione italiana
La capacità di resistenza al potere è inossidabile come il migliore acciaio. Ma per Adolfo Urso, con un cursus honorum che va da Gianfranco Fini a Giorgia Meloni, l’acciaio vero è la pena quotidiana fin dal giorno in cui è diventato ministro delle Imprese e del made in Italy. L’ex Ilva è del resto l’atavico problema di chiunque si occupi dello sviluppo economico. Urso sta cercando un passo in più, mettere mano nel suo complesso a un settore strategico, la siderurgia, che necessita di una riconversione green.
Ma i risultati stentano a vedersi a due anni dall’approdo a via Veneto, sede del Mimit. Il piano nazionale siderurgico era stato annunciato entro l’inizio di quest’anno dopo il tavolo a cui hanno partecipato imprese e parti sociali. I diretti interessati sono in attesa di novità. Rallentamenti che fotografano l’affanno a trovare una soluzione. E per uscire dalle secche mediatiche, Urso ha lanciato un’offensiva che va dal sottosuolo, con il decreto per l’estrazione delle materie prime, allo spazio, con l’apposito provvedimento sulla ricerca nel settore dell’aerospazio.
Senza decreti
A riportare sulla terraferma il ministro, c’è il magro bilancio sulla legge per il Made in Italy, approvata a dicembre dello scorso anno per rimodellare il sistema produttivo italiano a immagine e somiglianza del sovranismo meloniano. Il pacchetto di norme è stato salutato con grande soddisfazione del ministro che gongolava, parlando di «provvedimento storico per la politica industriale». Dopo sei mesi, tuttavia, nessuno ha potuto valutare i reali effetti: la riforma esiste solo sulla carta.
Mancano 32 decreti attuativi sui 35 previsti. Così lo stock di risorse economiche – di oltre un miliardo di euro – giace nei cassetti del Mimit. La rivoluzione delle politiche industriali non si scorge nemmeno all’orizzonte, come testimonia lo stallo sul fondo per il Made in Italy, che prevede un plafond di 700 milioni di euro per il 2024 e di altri 300 milioni di euro per il 2025. La responsabilità, in questo caso, è condivisa con il ministero dell’Economia di Giancarlo Giorgetti, chiamato ad apporre la firma decisiva per definire i criteri di accesso ai finanziamenti. Resta che il pilastro del provvedimento ancora manca.
Urso ha comunque lasciato a bagnomaria quasi tutti i testi, compresi quelli che fanno capo direttamente al suo dicastero. Sono infatti inutilizzati gli otto milioni di euro previsti per il «voucher innovazione», i 25 milioni di euro destinati alla filiera del legno 100 per cento italiano, i 20 milioni di euro spettanti al comparto fieristico e i 30 milioni di euro per la tecnologia del blockchain impiegata per favorire la tracciabilità. Con un paradosso aggiuntivo: in molti casi il Mimit aveva fissato a marzo o aprile la scadenza per emanare i provvedimenti attuativi.
I termini auto-indicati sono stati superati abbondantemente. Il Made in Italy può attendere addirittura per una delle bandiere della propaganda meloniana, i piatti tricolori. Sono bloccati i due milioni di euro messi per il «fondo per la promozione della cucina italiana all’estero» nel biennio 2024-2025. La strategia è in linea con quella del governo Meloni: puntare tutto sull’effetto annuncio mettendo i fiocchetti della propaganda intorno per abbellire i messaggi. Del resto era avvenuto pure con le misure anti-inflazione del carrello tricolore, il trimestre di prezzi bloccati da ottobre a dicembre, presentato con notevoli aspettative ma che si è perso nelle nebbie in pochi giorni. I prezzi hanno frenato la corsa, ma per altre dinamiche.
Il passato è ormai alle spalle, al Mimit si pensa al futuro affidato a figure chiave, come Mattia Losego, responsabile della struttura di crisi aziendali, convocato dal Veneto – regione di Urso – dove il dirigente aveva lo stesso incarico. Mentre l’uomo macchina è il capo della segreteria, Mario Melillo, ex dirigente Sace. Sul loro tavolo ci sono altri dossier da affrontare: prima della pausa estiva è atteso il disegno di legge sulla Concorrenza, uno degli obiettivi del Pnrr. Bisogna farlo per forza, benché a destra non si guardi con entusiasmo dell’apertura concorrenziale. Preferendo salvaguardare le rendite di posizioni. Basti pensare ai dossier su balneari e tassisti, che vedono Urso in secondo piano. Sono gli altri i ministri che hanno preso i dossier in mano.
Il prossimo ddl conterrà interventi light come la proroga dei dehors per i locali e ritocchi al mercato delle assicurazioni. Mentre la vera scalata cha attende il ministro è il riordino del settore carburanti. In Italia, osservano dagli uffici ministeriali, ci sono troppi distributori: occorre una razionalizzazione che non diventi una mattanza. Serve costruire una riconversione, che già fatto scattare sospetti tra gli operatori. Il timore è che a beneficiarne siano i player più forti.
Calma e nervosismo
La storia degli ultimi mesi racconta anche che Giorgia Meloni avesse manifestato perplessità sull’operato di Urso in conversazioni private, e non è un mistero che Raffaele Fitto non abbia condiviso alcune scelte di Urso. Con gli altri colleghi non si segnala un particolare feeling, ma «nemmeno una particolare ostilità» riferisce una fonte interna. Il carattere di Urso è quello di conservare comunque un buon vicinato. Così, al netto di alcune insoddisfazioni, la linea di palazzo Chigi è tracciata: proteggere pubblicamente i ministri, la presidente del Consiglio ha messo al bando la parola rimpasto.
Urso, da navigato politico sulla scena da decenni, non si è mai scomposto rispetto alla leader del Fratelli d’Italia. La risposta indiretta è arrivata comunque dalle europee con il risultato ottenuto nel Veneto, suo feudo politico. E questo significa che vuole avere voce in capitolo per le prossime regionali dove si intrecciano partite interne a FdI oltre al braccio di ferro con la Lega per il post-Zaia.
Da settimane, però, si percepisce un certo nervosismo di Urso, dall’approccio solitamente mite, che da mesi si dimostra infastidito dalle critiche a mezzo stampa. Agli atti ci sono delle precisazioni inviate ai giornali, compreso Domani, talvolta sollecitata dai legali e non dall’ufficio stampa, come da prassi. In altre occasioni si è passati alle querele a quotidiani non ostili al governo.
Il caso principale ha riguardato un cronista del Tempo. La decisione di adire le vie legali è «motivata dalla volontà di proteggere mia moglie e i suoi familiari» ha fatto sapere il ministro. Poi il salto di qualità con la querela al Foglio e al Riformista per alcuni articoli sul commissariamento dell’ex Ilva. Inizialmente sembrava che non avesse gradito il nomignolo di «Adolfo Urss», usato in alcuni articoli e affibbiatogli pure dal leader di Italia viva, Matteo Renzi, per criticare un presunto approccio statalista sulle politiche industriali. Il ministro ha smentito questa ricostruzione, dicendo che la querela ha altre motivazioni. Schermaglie che lasciano sul campo una riflessione: l’innalzamento della tensione con i media. A prescindere dalla linea editoriale.
Solita Ilva
E si torna comunque al punto di partenza, la pena quotidiana dell’acciaio dell’ex Ilva, attualmente in amministrazione straordinaria. Intanto è stata allargata la platea della cassa integrazione, un «sacrificio necessario per ripartire» secondo la narrazione di Urso. Le soluzioni sono di là a venire nel tempo. Si attende il prestito ponte di 320 milioni di euro per cui serve il pronunciamento dell’Unione europea per evitare che si configuri un aiuto di stato.
«Ci sono dei player internazionali interessati», è il mantra che rimbalza dal dicastero di via Veneto ed è stato ripetuto all’ultimo question time alla Camera. In quell’occasione Urso ha fornito un cronoprogramma della riaccensione degli altiforni dello stabilimento pugliese, a cominciare da questa estate. «Questa non è una conferma banale. La aspettavamo e, quindi. La monitoreremo», ha osservato il deputato del Pd, Luca Pastorino, che ha presentato una delle interrogazioni sul tema. Il punto è che, di promesse ne sono state fatte tante, si attendono passi concreti. «La messa a terra degli investimenti ancora non c’è stata», dice a Domani Loris Scarpa della Fiom-Cgil. Insomma, si attendono risposte. Al netto delle bandiere tricolori piazzate sull’etichetta mediatica del made in Italy.
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