Piantedosi in parlamento ha confermato la linea a difesa degli agenti. Meloni usa la tensione per rilanciare la riforma del premierato
Niente appeasement sulle manganellate agli studenti. Anzi, la palese intenzione di Giorgia Meloni di tenere alta la tensione istituzionale con il Quirinale, trasferendo questa precisa intenzione nell’informativa in parlamento di Matteo Piantedosi.
Il ministro dell’Interno ha dovuto sposare, senza se e senza ma, la posizione di assoluzione nei confronti degli agenti, indicata dalla premier. Favorendo lo scontro con il presidente della Repubblica. Lo scopo politico è quello di arrivare a un’accelerazione sulla riforma del premierato. Basta freni, basta lacciuoli.
Dal Colle si osserva con distacco l’affondo, ma nella consapevolezza di un clima diverso rispetto all’insediamento della presidente del Consiglio a palazzo Chigi. Si apre una fase nuova che ha irrigidito le parti.
Nuovo attacco
Quando tutto sembrava incanalato sul binario della distensione tra Palazzo Chigi e Quirinale, è maturato il colpo di scena che ha rinfocolato la contrapposizione. «È pericoloso togliere il sostegno alla polizia», ha detto Meloni, in maniera sibillina, senza peraltro mai commentare in pubblico i fatti di Pisa.
Un ragionamento collegato all’aggressione a un gruppo di agenti a Torino da parte di un gruppo di anarchici, ufficialmente indirizzato agli avversari politici, alla sinistra. Ma che aveva un altro destinatario: Sergio Mattarella. Il Colle, dopo le manganellate agli studenti, ha assunto una posizione critica sulla gestione dell’ordine pubblico. Non è un mistero che la cosa abbia creato più di qualche malumore nella destra al potere. Nemmeno la telefonata tra il capo dello Stato e la presidente del Consiglio ha favorito il disgelo.
Tanto che dopo l’iniziale silenzio Meloni ha intrapreso una rotta ben precisa, ispirata dal suggeritore di Palazzo Chigi, il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari: sacrificare la linea di dialogo con il Quirinale e difendere l’operato delle forze dell’ordine. La velina mattutina inviata ai parlamentari di FdI è diventata la bussola per le mosse future di Meloni: è stata sbagliata la «narrazione» di quei fatti.
Lo strappo con il Colle, in fondo, non amareggia più di tanto la premier, perché è una buona argomentazione per pigiare il piede sull’acceleratore delle riforme. Così da indebolire, al netto delle dichiarazioni di facciata, il ruolo del capo dello stato. La popolarità di Mattarella resta un problema per la revisione della Costituzione. Perciò è opportuno scalfire l’aura di terzietà di Mattarella, che da parte sua guarda con occhio diverso Meloni. E non da ora.
Irritazione al Colle
Come racconta Dagospia, il presidente della Repubblica, in sintonia con la Corte dei conti e la Ragioneria dello stato, non ha gradito l’accentramento dei poteri da parte di Palazzo Chigi. E il sostanziale fastidio verso gli organismi indipendenti di controllo. Lo sguardo è rivolto al post europee: il Quirinale sarà chiamato a un ruolo di supplenza della politica, per l’ennesima volta, per evitare tentazioni sovraniste e tenere il dialogo con Emmanuel Macron.
In Fratelli d’Italia, seppure solo tra i conversari privati, più di qualcuno manifesta il rimpianto per aver rinunciato al presidenzialismo in nome della formula più soft del premierato. Era una bandiera del partito, il grande sogno del centrodestra. Solo che adesso, con un percorso ben avviato, la retromarcia è da escludere. Resta agli atti il cambio di passo nei rapporti.
Di mezzo c’è una campagna elettorale che si annuncia molto tesa, con la pressione a destra della Lega di Matteo Salvini che si sente. L’allure istituzionale rischia di diventare un fardello per chi, come Meloni, si è sempre presentata come una leader di rottura con il sistema. Peraltro, addirittura dentro Forza Italia non ci sono stati tentennamenti. «I poliziotti sono figli del popolo attaccati da radical chic. Siamo a sostegno delle forze dell’ordine», ha detto il vicepremier e segretario di FI, Antonio Tajani. Una posizione ribadita a più riprese dalla Lega, anche in parlamento giovedì.
Tempi sospetti
La tempistica delle parole di Meloni sul sostegno alla polizia non è passata inosservata: con la scusa dell’aggressione di Torino, ha praticamente dettato la linea a Piantedosi per la sua informativa alla Camera e al Senato. Il ministro dell’Interno ha vissuto con «turbamento», per sua stessa ammissione, le cariche di Pisa e Firenze, lasciando trapelare un iniziale fastidio verso la gestione della piazza.
Così è partito il richiamo all’ordine dai vertici del governo. Durante la relazione in aula ha dovuto adeguarsi. E infatti dietro il rispetto di circostanza per le parole del presidente della Repubblica, il ministro dell’Interno ha dovuto manifestare tutta la vicinanza agli agenti. Scaricando le responsabilità sui manifestanti.
Ordine eseguito dal numero uno del Viminale. «No a processi sommari», ha scandito il ministro, ricordando che la manifestazione non era stata concordata con la questura. Detta così, il corteo sembra che se la sia un po’ cercata.
Colpa loro, dunque, come ha evidenziato la deputata del Movimento 5 stelle, Vittoria Baldino: «È il ministro che fa un processo sommario ai ragazzi, colpevoli di essere scesi in piazza, come dire che a Cutro i migranti sono morti perché non dovevano partire».
Insomma, da un lato la minimizzazione degli errori e l’attribuzione delle colpe alla mancata autorizzazione della protesta. E poco male se Silvia Conti, dirigente del reparto mobile della polizia a Firenze, è stata spostata dopo le cariche di Pisa. Il ministero dell’Interno minimizza, spiegando che si tratta di un avvicendamento già programmato. Ma il timing della decisione è quantomeno sospetto, fino a renderla un capro espiatorio.
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