La riforma firmata dai ministri Urso e Sangiuliano contiene una norma su misura delle piattaforme e i brodacaster esteri. Un danno per i produttori italiani indipendenti
L’orgoglio del made in Italy del governo Meloni si inchina di fronte alla lobby dei colossi internazionali nel campo dell’audiovisivo. Da Netflix a Sky, da Disney ad Amazon (attraverso il servizio Prime Video), tutte le piattaforme di streaming e i broadcaster tradizionali sono pronti a passare all’incasso, in termini di poteri contrattuali, a scapito dei piccoli produttori indipendenti. Che saranno privati delle attuali tutele previste rispetto allo strapotere dei big player del settore. E costretti a subire eventuali proposte capestro.
Più poteri ai colossi
Una riforma, in discussione, prevede l’eliminazione di una norma che oggi fornisce una garanzia negoziale degli indipendenti sui diritti secondari. Si tratta, nello specifico, della possibilità di cedere alcuni diritti, tenuti fuori dal perimetro dell’intesa, come quelli per le tv in chiaro, così come i diritti di vendita all’estero, un mercato in crescita negli ultimi anni grazie al rilancio del cinema italiano.
Il paradosso è che il regalo ai colossi internazionali porta la firma del ministero delle Imprese del made in Italy, guidato da Adolfo Urso, con la benedizione del ministero della Cultura di Gennaro Sangiuliano. Due pesi massimi della squadra meloniana, d’impronta sovranista. Almeno nelle parole.
L’iniziativa, gradita ai giganti dell’audiovisivo, è già partita con una piccola modifica al Testo unico dei servizi di media audiovisivi (Tusma), in esame alla Camera (sono ancora in corso le audizioni nelle commissioni riunite Cultura e Trasporti). Con la semplice cancellazione di un comma Netflix, Sky, Disney e le altre piattaforme (o broadcaster) potranno godere di un forza pressoché illimitata in fase di negoziazione.
Per capire la portata dell’intervento è necessario conoscere il funzionamento del settore. Secondo la legge in vigore, il produttore può avviare la fase di progettazione di un’opera, che sia un film, una serie tv o un documentario. Nel concreto significa che investe delle risorse economiche per predisporre il soggetto, iniziare la preparazione della sceneggiatura e magari contrattualizzare un team con lo scopo di definire il prodotto audiovisivo da commercializzare successivamente. Poi, però, occorre chi ci mette i soldi, la parte più sostanziosa almeno. Da lì può avviare i contatti con un investitore, che sono le grandi piattaforme internazionali, Netflix e dintorni, i privati – in Italia c’è per esempio Mediaset – e la Rai nel ruolo di servizio pubblico, chiamati a destinare una somma a sostegno degli indipendenti.
Indipendenti e abbandonati
In caso di accordo, il produttore cede i diritti principali, quindi la trasmissione in streaming o sulle tv a pagamento, in base a quanto sottoscrivono. Ma restano fuori dall’intesa altri elementi, i diritti secondari appunto, oggetto di un’ulteriore trattativa tra le parti. Il produttore indipendente, avendo avviato il progetto, può rivendicare insomma la conservazione di alcuni diritti sulle opere, come quello sulla trasmissione sui canali in chiaro. Oppure, in alternativa, può optare per riprendersi tutti i diritti dopo che il prodotto è stato sfruttato dal broadcaster o dalla piattaforma (in genere sono 10 anni).
Si riappropria di un film, per esempio, che può fornire ulteriori margini di ricavo. La riforma del Tusma intrapresa dal Mimit di Urso cancella questa possibilità, oggi di primaria importanza. E, a inizio dicembre, il Mic di Sangiuliano ha dato il proprio avallo con una lettera firmata da Nicola Borrelli, attualmente alla guida della direzione generale cinema e audiovisivo. La motivazione fornita è quella della mancata applicazione dell’intero comma oggetto della soppressione.
Appello dei produttori
Durante il ciclo di audizioni in parlamento, gli operatori del settore hanno lanciato un appello per salvare questa norma, ritenuta cruciale. «I produttori indipendenti sono spesso parti deboli in queste trattative per ovvie ragioni anche di dimensione aziendale», ha spiegato l’Anica – come riporta l’agenzia Agcult – durante l’audizione del 23 gennaio in parlamento. Nel dettaglio, ha spiegato l’Unefa (Unione esportatori internazionali di Anica), si «rischia di svilire la figura del produttore indipendente che diventerebbe sostanzialmente un esecutore».
La ratio della norma in vigore «si prefigge di evitare proprio questo rischio. Se i produttori indipendenti non possono mantenere alcuni dei diritti che vengono affidati, si azzera conseguentemente il senso del nostro lavoro e di un intero comparto della filiera che è quello delle vendite internazionali», sintetizzano dall’Unefa. Un bel cortocircuito: la filiera made in Italy colpita dal ministro del made in Italy. Facendo brindare i big player mondiali.
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