- Il presidente Amato in conferenza stampa, parlando del referendum sulla cannabis, ha fatto riferimento ad alcuni errori di forma presenti nel quesito referendario.
- In realtà i riferimenti sono corretti. Il problema, però, è che le tabelle citate dall’articolo che i promotori avrebbero voluto cancellare contengono sia le droghe pesanti sia quelle leggere.
- È stato presentato come referendum sulla cannabis ma in realtà il quesito aveva una portata molto più ampia, con un contenuto eterogeneo.
«Peccato che il referendum non fosse sull'eutanasia ma sull'omicidio del consenziente» e quello sulla cannabis «anche su altre sostanze stupefacenti» . Il presidente Giuliano Amato, al termine della camera di consiglio della Corte costituzionale che ha deciso sui referendum, non ci ha girato attorno. Durante un’inusuale conferenza stampa ha spiegato parte delle motivazioni che hanno spinto i giudici a dichiarare inammissibili tre referendum su otto, ben prima della pubblicazione della sentenza scritta che si è soliti leggere dopo decisioni di questo tipo.
Le parole del presidente hanno portato a una lunga serie di polemiche tra la stessa Corte e i proponenti, in particolari i comitati che hanno raccolto le firme per i quesiti sulla legalizzazione della cannabis e sull’introduzione dell’eutanasia, promossi da una lunga lista di organizzazioni, guidate dai Radicali e dall’Associazione Luca Coscioni.
«Ascoltare la conferenza stampa di Giuliano Amato ci ha dato la certezza che la decisione su cannabis e eutanasia è stata politica», ha detto Marco Cappato dell’associazione Coscioni, ex eurodeputato dei Radicali, e noto per la sentenza che porta il suo nome, con cui i giudici della stessa Consulta hanno depenalizzato l’aiuto al suicidio dopo il caso di dj Fabo, morto in Svizzera con procedura eutanasica dopo essere stato accompagnato da Cappato.
I giudizi espressi ieri dal presidente della Consulta sui referendum eutanasia e cannabis «puntano a minare la credibilità e la reputazione dei comitati promotori dei due referendum ai quali è stata attribuita l’incapacità tecnica di scrivere i quesiti referendari e di avere preso in giro milioni di cittadini elettori».
Secondo Cappato «non c’è nessuna legalizzazione della eroina o cocaina. Riguarda la coltivazione ma mantiene intatte al cento per cento le punizioni di tutte le operazioni successive che fanno passare da una pianta ad un droga, tranne che per la cannabis che può avere questo tipo di consumo diretto». Una disputa complicata che inevitabilmente riguarda interpretazioni giuridiche e commi.
L’eterogeneità è dannosa
Il presidente Amato in conferenza stampa, parlando del referendum sulla cannabis, ha fatto riferimento ad alcuni errori di forma presenti nel quesito referendario, dicendo che il testo citava delle tabelle che non riguardavano i cannabinoidi ma solo le droghe pesanti.
In realtà i riferimenti sono corretti. Il problema, però, è che le tabelle citate dall’articolo che i promotori avrebbero voluto cancellare contengono sia le droghe pesanti sia quelle leggere. Ma ci torniamo più avanti.
Il problema più importante, infatti, non è relativo alla citazione delle tabelle ma piuttosto la portata della modifica. È stato presentato come referendum sulla cannabis ma in realtà il quesito aveva una portata molto più ampia, con un contenuto eterogeneo. E probabilmente è stata questa la prima ragione per la quale è stato considerato inammissibile.
Durante i referendum chi è chiamato al voto può esprimersi solo con un sì o con un no, se le norme sono troppo ampie si rischia di presentare all’elettore una modifica troppo articolata, con ambiti applicativi diversi, che finisce per disorientarlo.
Il quesito bocciato puntava ad abrogare tre punti della legge di riferimento sulle droghe in Italia, inizialmente promulgata nel 1990 e poi modificata varie volte nel corso degli ultimi tre decenni. La prima parte del quesito, di cui Amato ha parlato a lungo in conferenza stampa, proponeva di eliminare dal Testo unico sulle droghe (precisamente dall’articolo 73, comma 1) il reato che punisce chi «coltiva» le sostanze stupefacenti o psicotrope elencate dalla legge.
In particolare, quelle indicate nella tabella I prevista dall’articolo 14 del Testo unico. Quella tabella contiene tantissime sostanze stupefacenti, tra cui il Thc, il principio attivo della cannabis. Ma non solo, l’elenco infatti riporta sia le droghe leggere che quelle pesanti, come le foglie di coca, l’oppio e i funghi allucinogeni. Piante che possono essere coltivate tranquillamente a casa.
Serve omogeneità
Bisogna anche tenere conto di alcune sentenze della Corte di cassazione, l’ultima risale al 2020: i giudici più volte hanno dichiarato che la coltivazione per uso personale non è reato. Il referendum quindi incideva, da una parte, su una materia che si ritiene già depenalizzata (la coltivazione per uso personale), ma allo stesso tempo avrebbe potuto creare ambiguità, come nel caso di coltivazione di una droga pesante e il suo successivo spaccio.
Una doppia combinazione, una non punibile, l’altra sì, che avrebbe potuto creare incertezza giuridica. E in tribunale non si può procedere per analogia, le fattispecie devono essere scritte.
In ogni caso il problema del referendum rimane la sua eterogeneità. La seconda parte del quesito chiedeva di cancellare la pena detentiva per le droghe leggere. Il testo di legge presente nelle banche dati pubbliche non è aggiornato sul punto. Ma c’è una spiegazione.
A seguito della pronuncia della Corte costituzionale, nel 2014, che ha dichiarato incostituzionali alcune modifiche della legge Fini-Giovanardi, molto restrittiva sugli stupefacenti, sono tornate in vigore alcune regole in vigore in precedenza. Questa prevedeva (e prevede tutt’ora) il carcere da due a sei anni per chi coltiva, produce o commercializza la cannabis. Il quesito chiedeva di cancellarla. Nel caso della commercializzazione, però, si sarebbe andati contro una convenzione europea del 2004 firmata dall’Italia.
Il terzo e ultimo quesito proponeva di eliminare la sospensione della patente di guida per chi «detiene sostanze stupefacenti o psicotrope» o ne fa «uso personale». Pena simile che sarebbe rimasta in vigore, invece, per chi risulta positivo all’alcol test.
I giudici probabilmente hanno tenuto conto che il referendum aveva una portata molto ampia: sì alla coltivazione (anche di alcune droghe pesanti), no al carcere per chi coltiva e vende e stop al ritiro della patente. Con un sì o un no si doveva prendere o lasciare tutto, ma l’eterogeneità è uno dei requisiti con cui si valuta l’ammissibilità o meno dei quesiti.
Il referendum deve essere omogeneo, sia l’oggetto sia lo scopo, perché la risposta degli elettori è secca. In questo caso l’oggetto era unico, gli stupefacenti, ma gli scopi erano molti.
Il vulnus dell’eutanasia
Anche il referendum sull’eutanasia ha mostrato un vulnus tra lo scopo dei promotori e contenuto del quesito, ma probabilmente era difficile proporre un’alternativa valida perché le norme in materia non sono semplici da districare.
L’obiettivo del comitato era quello di introdurre l’eutanasia, consentire a un soggetto che versa in condizioni di vita paragonabili a quelle del caso Cappato, con una malattia irreversibile, di chiedere l’aiuto al suicidio. La scelta dei referendari è stata quella di consentirne l’introduzione eliminando parte del reato dell’omicidio del consenziente punito dall’articolo 579 del Codice penale, una fattispecie che comprende molte più ipotesi di quello che si intende oggi per eutanasia, anche persone che non sono registrano in partenza condizioni fisiche irreversibili. I giudici hanno valutato dunque il rischio di creare un vuoto di tutela nei confronti di uno dei beni, quello della vita, che è protetto dalla Costituzione.
È una costatazione che può sembrare paradossale perché quello in discussione, e sui cui si concentrava il referendum, è un reato molto raro. Non si verifica quasi mai. Ma resta il fatto che dal punto di vista della fattispecie astratta, ovvero di previsione di tutti i casi possibili all’interno del codice penale, non si può abrogare una norma che c’entra poco o nulla con l’eutanasia vera e propria. L’intervento abrogativo avrebbe tolto praticamente di mezzo un reato che ha un perimetro molto più ampio dell’aiuto al suicidio del consenziente.
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