- Il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba i soldati italiani aprirono il fuoco indiscriminatamente su una folla di oltre tremila etiopi radunati per una cerimonia pubblica, dopo il lancio di due bombe a mano da parte della resistenza anti italiana
- La rappresaglia non si fermò: il segretario federale del Partito fascista Guido Cortese fece distribuire armi a tutti gli italiani, incitando anche i civili a partecipare a un massacro indiscriminato che causò almeno 20mila vittime etiopi
- In Etiopia il massacro viene ricordato con una giornata di commemorazione dedicata a Yekatit 12 – la data che nel calendario locale indica il 19 febbraio – in Italia la vicenda è stata costantemente taciuta
Il 19 febbraio 1937 venne organizzata ad Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia, una cerimonia pubblica per festeggiare la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia. L’iniziativa fu promossa dal viceré Rodolfo Graziani, che da alcuni mesi governava il paese: l’Etiopia era stata infatti conquistata dall’Italia l’anno precedente al termine di un’aggressione coloniale che aveva esteso i possedimenti nell’Africa orientale Italiana e condotto Mussolini a proclamare l’“Impero”.
Il massacro
Graziani aveva promesso l’elargizione di un’elemosina a chi avesse partecipato e davanti al palazzo dell’amministrazione italiana si era dunque accalcata una folla di poveri: circa 3000 persone, in gran parte anziani, donne e bambini. Fra di loro si infiltrarono anche due studenti eritrei, Moges Asgedom e Abriha Deboch, che militavano in una cellula di resistenza anti italiana e nel corso della cerimonia lanciarono alcune bombe a mano contro il palco delle autorità, provocando sette morti e una cinquantina di feriti, tra cui lo stesso Graziani.
La reazione immediata fu violentissima: i militari spararono a raffica sulla folla inerme, uccidendo quasi tutti i presenti. La reazione delle ore successive fu ancora peggiore: il segretario federale del Partito fascista Guido Cortese, che prese il comando al posto di Graziani, ricoverato in ospedale, ordinò una rappresaglia generalizzata contro la popolazione etiope, facendo distribuire armi a tutti gli italiani e incitando anche i civili a partecipare a un massacro indiscriminato che per tre giorni mise a ferro e fuoco la città, causando almeno 20mila vittime etiopi.
La rimozione italiana
Lo racconta estesamente lo storico britannico Ian Campbell nel suo Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana (Rizzoli 2018), un libro che ha avuto poche recensioni e scarsa circolazione e non è bastato a rompere il diffuso silenzio che ha espunto dalla memoria pubblica uno dei crimini più efferati del colonialismo. Se in Etiopia il massacro viene ricordato con una giornata di commemorazione dedicata a Yekatit 12 – la data che nel calendario locale indica il 19 febbraio – in Italia la vicenda è stata costantemente taciuta. Non ne hanno parlato le istituzioni, e tranne rarissime eccezioni, tra cui si distinguono i lavori di Angelo Del Boca, non lo ha fatto neppure la storiografia.
Tale circostanza è la spia di un problema più vasto che riguarda l’intera storia del colonialismo italiano, dalle prime spedizioni negli anni Ottanta dell’Ottocento fino allo spietato avventurismo fascista, passando per la campagna di Libia voluta da Giolitti nel 1911.
Decenni di aggressioni, discriminazioni e violenze sono stati infatti oggetto di una sistematica rimozione delle responsabilità che ha relegato queste pagine buie della memoria nazionale agli estremi margini del discorso pubblico.
Solo a uno sguardo superficiale questa reticenza può apparire veniale, magari giustificata dalla naturale inclinazione degli esseri umani a non indugiare sulle proprie colpe. Se non altro perché la psicologia sociale ci ha insegnato che le rimozioni collettive, come quelle individuali, tendono a sfociare nella coazione a ripetere, cioè nel rischio di replicare, più o meno involontariamente, gli errori con cui non si sono voluti fare i conti. Sotto questo aspetto, le tante forme di razzismo che proliferano nel nostro paese non sono di certo slegate dalla mancata consapevolezza del passato imperialista e dal fatto che non è ancora avvenuta una effettiva decolonizzazione della nostra mentalità e del nostro sguardo su quelle vicende.
Bisogna infatti ammettere che gli oblii ai quali si è fatto cenno non hanno riguardato soltanto l’ambito politico o quello accademico. Anche gran parte delle istituzioni culturali hanno sottovalutato la questione, dedicandovi ben poche ricerche, incontri, mostre, convegni. Eppure, è proprio un serio lavoro di memoria a poter costituire un efficace antidoto alla coazione a ripetere e dunque ogni iniziativa per contrastare la rimozione andrebbe promossa, perseguita e moltiplicata.
Mappare il colonialismo
È con questo spirito che il Polo del ‘900 di Torino – un centro culturale che accorpa 24 enti della città e i loro archivi, nell’ottica di tradurre la ricerca sul secolo scorso in una chiave di lettura del presente – ha deciso di dedicare una parte significativa della programmazione culturale degli ultimi mesi alla storia del colonialismo italiano. Tre delle associazioni che vi risiedono – l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea e l’Unione culturale “Franco Antonicelli” – hanno coordinato un lavoro corale che ha coinvolto numerosi altri enti del Polo e prodotto un ciclo di riflessioni pubbliche, proiezioni cinematografiche e installazioni artistiche volte a informare sul tema e a sensibilizzare la cittadinanza sulle conseguenze problematiche di un suo diniego.
Un’attenzione particolare è stata dedicata alla questione dell’odonomastica, cioè dell’intitolazione delle vie e delle piazze della città. Si può infatti constatare che a Torino, come nella maggior parte delle località italiane, le tracce del passato coloniale in realtà non mancano. A conservarle sono numerosi toponimi che rimandano a luoghi geografici (Massaua, Bengasi, Tripoli), a battaglie (Dogali, Adua, Amba Aradam) o a militari che vi hanno partecipato. La maggior parte di queste strade vennero intitolate dai podestà fascisti a scopo celebrativo nella seconda metà degli anni Trenta, dopo la proclamazione dell’“Impero”, ma con il passare del tempo e la congiura del silenzio se ne è perduta la consapevolezza.
Riportare l’attenzione pubblica sull’origine e il significato di questi nomi, cui si aggiungono nel tessuto urbano monumenti, targhe e cippi, può allora contribuire a una presa di coscienza su larga scala e a promuovere una riflessione, allargata alla cittadinanza e condivisa con gli attori del territorio, sulle azioni da intraprendere rispetto a quelle tracce di una memoria perduta: come segnalarne la presenza, raccontarne la storia e i suoi retroscena, risignificarle in un’ottica postcoloniale.
Vanno già in questa direzione alcuni interessanti progetti di mappatura disponibili online, come il sito web Postcolonial Italy. Mapping colonial heritage, parte di un progetto internazionale curato dalla ricercatrice Daphné Budasz e dallo storico Markus Wurzer – che al momento riguarda Bolzano, Cagliari, Firenze, Roma, Torino, Trieste e Venezia – e il portale Viva Zerai!, lanciato nel 2021 dal collettivo Wu Ming Foundation e aperto ai contributi di chiunque voglia segnalare toponimi coloniali sul territorio italiano.
Approfondimenti
A questo riguardo, le attività del Polo del ‘900 hanno condotto a un ulteriore risultato, nella prospettiva di concretizzare le ricadute civili dell’indagine storica e dell’azione culturale. Il lavoro svolto ha infatti ispirato una proposta di mozione presentata al Consiglio comunale di Torino, a firma della consigliera Alice Ravinale e del consigliere Abdullahi Ahmed Abdullahi, anche in analogia a quanto sta accadendo in altre città, come Milano, Bologna e Roma.
La mozione impegna il sindaco e la giunta a contestualizzare, mediante l’inserimento di idonee targhe o di “QR code” esplicativi o di eventuali interventi di arte pubblica, gli odonimi e i monumenti dedicati a luoghi e persone collegate al passato coloniale italiano, al fine di consentirne una facile identificazione, e invita a promuovere progetti di approfondimento relativi al passato coloniale italiano, in particolare rivolti alle scuole, anche organizzando, intorno al 19 febbraio, anniversario di Yekatit 12, iniziative in memoria delle vittime del colonialismo italiano.
Si tratta di un inizio, di una prima rivendicazione, che probabilmente si imbatterà in scetticismi, ostacoli e rifiuti. Più forte dovrà essere l’impegno a ristabilire la verità di fatti troppo a lungo ignorati.
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