- «Il congresso Pd? Cambiare segretario non basta, non ho mai visto un automobile cambiare radicalmente le proprie prestazioni sostituendo le gomme».
- «Simpatizzavo per Art.1 perché non era nel Pd. E portava avanti un'identità di sinistra. Non contesto la scelta, è legittimo cercare di diventare un elemento in una realtà più grande. Ma io non sono d'accordo».
- «Mi sono dimesso dal comitato degli 87 del Pd perché era una strana babele. Ognuno ha la sua visione, che è parziale, ma la vive come se fosse l'unica».
Da uno scrittore che ha il suo ultimo libro fisso da settimane al vertice delle classifiche dei più venduti («il libro più recente» corregge lui, che è napoletano e quindi scaramantico, allegramente e laicamente quanto si vuole ma scaramantico), ci aspetteremmo una qualche prudenza in fatto di esternazioni politiche. Anche solo per evitare di andare sulle scatole a una parte del proprio lettorato, e proprio durante le feste, l’unico momento in cui in Italia si vendono libri.
A Maurizio De Giovanni, milioni di libri venduti, il punto non passa neanche per la testa, e chi gli sta davanti ondeggia nel dubbio che si tratti di una deliziosa forma di ingenuità o di una affilata tecnica di marketing. Né l’uno né l’altra, in realtà: la verità è che lui francamente se ne infischia. Dunque dice esattamente quello che vuole. E fa esattamente quello che gli passa per la testa. E che non ti aspetti: come scrivere la prefazione al libro di Paola De Micheli, candidata al congresso Pd, una con cui a occhio De Giovanni ha in comune giusto una preposizione nel cognome. E invece, dice, lo ha fatto perché «è una donna in gamba, del Nord, che però ha davvero in testa il Sud», dice.
L’autore di Caminito (Einaudi), romanzo noir in cui fa il suo ritorno il commissario Luigi Alfredo Ricciardi evidentemente richiamato in servizio a furor di popolo (visto che il padre letterario ci aveva fatto capire che se ne voleva liberare), è uno che «quando scrive non pensa ai lettori, altrimenti si scrivono banalità». Stessa cosa quando parla di politica: non fa l’elettore deluso né la vittima della classe dirigente cattiva perché, immaginiamo, da scrittore di noir è convinto che «non di rado la vittima è assai peggiore del suo assassino».
Possiamo parlare di politica anche durante le feste?
Sì, anche per un atto di rivolta, perché non c’è nulla che induca alla jihad come il Natale cattolico. Qualche anno fa ho scritto un giallo, Per mano mia, in cui c’è proprio un duplice omicidio a Natale. Ci tenevo moltissimo a metterci un po' di sangue. Queste feste sono corvée in cui tutti si scocciano, ma poi si offendono se gli altri non accettano l’invito. Uno spettacolare cupio dissolvi familiare. E questo ci porta alla politica.
Quello che sta vivendo il Pd con il suo congresso è un cupio dissolvi?
Forse è una tara genetica. Intendiamoci, l’attitudine alla discussione è un fatto positivo. Spesso siamo ipercritici nei confronti del Pd, fino a essere demolitivi, ma non dobbiamo dimenticare che un dubbio sulla scelta di una linea di condotta, sull’interpretazione di una realtà, è un fatto positivo. Ma che ci sia un dubbio su ogni cosa che si deve fare, anche una volta deciso, no.
Lei è stato chiamato nel comitato costituente del Pd, ma poi si è dimesso. Viene da chiederle perché aveva accettato?
Mi ha chiamato Roberto Speranza. Poteva essere una buona occasione coinvolgere punti di vista così radicalmente diversi. Solo che nel comitato degli 87, per quello che ho visto, ognuno porta avanti la propria specializzazione come se fosse fondamentale. Ne esce una strana babele. Ognuno ha la sua visione, che è parziale, ma la vive come se fosse l’unica. Faccio un esempio: se io chiamo un idraulico a casa mia, lui vede che l’impianto idraulico fa schifo e dirà che la casa fa schifo. E magari la casa ha solo i tubi da mettere a posto.
Insomma tutto sbagliato tutto da rifare?
Questo comitato era una cosa giusta, valida, fosse stato agibile, fattivo, fossero state venti persone, sarebbe stata una novità, ed è il motivo per cui avevo aderito. Hanno proposto una bella cosa: creare una piccola costituzione sulla base della quale muoversi nei prossimi anni. Solo che poi erano in ottantasette. Il metodo era inaccettabile, la divisione in quattro comitati decisi dall’alto, non era conclusivo.
Lei simpatizzava per Art.1, il partito degli scissionisti che con questo congresso torna nel Pd. Li seguirà in questo rientro?
Simpatizzavo per Art.1 perché non era nel Pd. E portava avanti un’identità di sinistra, profondamente diversa rispetto al Pd. Non contesto la scelta, è legittimo cercare di diventare un elemento all’interno di una realtà più grande e composita. Ma io non sono d’accordo.
Perché?
Perché il Pd nel tempo ha imbarcato forze che non sono di sinistra e che determinano che abbia un’identità mediana, che di volta in volta sui temi si smussa, diventa morbida, e insomma non rende possibile agli elettori di sinistra riconoscersi.
Serve un partito di “sinistra-sinistra”?
L’elettore di sinistra vuole riconoscersi in un partito, ed è difficile farlo in un partito dove ci sono pezzi di Dc e pezzi di socialdemocrazia. Io credo nell’ideologia. Intendo dire: abbassare la bolletta del gas non è una linea politica. Capisco l’importanza della bolletta del gas, e l’urgenza di pagarla, ma non può diventare una bandiera di partito. Non credo che davvero qualcuno possa votare a ogni elezione chi promette di farmi risparmiare sulle tasse. Così è un supermercato, non politica. Almeno non è la politica in cui un uomo della mia età si riconosce.
Mezza Italia ha votato a destra, Meloni vince.
Attenzione, non vince Meloni. Di volta in volta vince la Lega, i Cinque stelle, stavolta Meloni. Noi abbiamo un elettorato ventrale che ammonta al 25 per cento. Che si sposta di volta in volta verso chi urla meglio. Finché non diventa forza di governo. E quando diventa forza di governo quell’elettorato si sposta. Sarebbe fisiologico, ma non se accade in questa misura. Una cosa è il 5 per cento che si sposta di volta in volta. Qui da noi invece, è un fatto algebrico, quella percentuale si gonfia perché il 50 per cento delle persone non vota più. Fra un anno e mezzo, quando Meloni, forzatamente, avrà fatto molte mediazioni e avrà scontentato il suo elettorato ex di opposizione, quell’elettorato si sposterà di nuovo.
Comunque non si sposterà sulla sinistra.
Si potrebbe spostare sulla sinistra se la sinistra urlasse, ma la sinistra non urla, discute. Il che non è sbagliato. Serve andare dritti su una linea, non urlare.
Insomma lei ha fatto la prefazione a un libro di una candidata al congresso del Pd, ma non la convince il Pd.
Ho fatto la prefazione a quel libro perché Paola De Micheli è una donna del nord che crede davvero nel sud. Ma il Pd ha cambiato nove segretari. Nove persone molto diverse, ciascuna a suo modo credibile, anche decise. Ma non mi pare che sia cambiato niente. Sa perché? Perché non ho mai visto un’automobile cambiare radicalmente le proprie prestazioni sostituendo le gomme.
Dunque conclude le feste dicendoci che la sinistra è impossibile?
Abbiamo fatto il Natale dei pessimisti? Ma no, dico che la sinistra è necessaria. E che c’è una necessità fortissima della sua esistenza. E che i suoi principi non sono stati mai così attuali. Il punto è ricostruire una sinistra che sia riconoscibile. Oggi l’elettore di sinistra non sa nemmeno di esserlo. Ci sono ragazzi nati vent’anni fa, e cioè dopo l’ultima sinistra accettabile. Nelle parole di chi dovrebbero riconoscersi? Questa classe dirigente ha sottratto agli elettori di sinistra persino la consapevolezza di esserlo.
Infatti vince la destra.
In Europa vince Orbán, Erdogan, Lukashenko, la Le Pen. Siamo in presenza di una tendenza pericolosa, in un’Europa governata dal denaro, come il caso Qatar dimostra. E poi c’è la Meloni. Una post fascista, legittimamente vincitrice delle elezioni democratiche come i suoi colleghi, ma una che rivendica orgogliosamente la sua identità.
E la sinistra non ha voti, e neanche armi per contrastarla.
Cito un provvedimento fra tutti, che sembra marginale ma invece racconta bene una linea politica: la variazione del bonus per i ragazzi. Il bonus ha un principio che consente di leggere libri a chi libri non li legge perché o non se li può comprare o anche, attenzione, perché un libro resta indietro rispetto ad altre priorità. Dando il bonus a quelli che hanno avuto il massimo dei voti alla maturità, che sono quelli che fatalmente leggono, incrementiamo la differenza fra quelli che leggono e quelli che no. Togliamo una possibilità a quelli che non si possono comprare i libri e la diamo a quelli che già se li comprano. Vogliamo distribuirlo sulla base del reddito? Però dobbiamo ricordarci che la dichiarazione media dei gioiellieri in Italia è meno di ventimila euro. È un criterio legittimo? Non lo so.
Ma è una linea di pensiero di fronte alla quale la sinistra parla poco. E a me non è la stretta sui rave che preoccupa: il rave è una manovra bandiera fatta male e grossolana, ma non ce la vedo la polizia che va contro gli studenti che ballano. Invece il bonus cultura traduce una linea di pensiero. Che mi preoccupa.
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