Sarà interessante leggere a fine campagna elettorale i dati dell’Osservatorio di Pavia che tiene conto del tempo dei partiti e dei leader in radio e in televisione. Che la presenza di Giorgia Meloni sia stata debordante in questi mesi lo si coglie anche ad occhio nudo, ma la riprova matematica servirà a metter in luce ancor meglio la distorsione informativa.

Gli esempi non mancano. Però l’arroganza della destra post-neo fascista non porterà lontano. I piccoli e grandi autocrati finiscono prima o poi per prendersi una bella scoppola. In Polonia Jaroslaw Kaczynsky, alla fine, è stato spodestato. C’è voluto del tempo per costruire un fronte compatto delle opposizioni ma la tenacia di Donald Tusk e della sua Coalizione civica ha avuto la meglio. E ora stanno liberando il paese dalle scorie tossiche di intolleranza e prevaricazione dei precedenti governi.

Anche Viktor Orbán comincia a vedere sfarinarsi il suo sistema di potere. E in India il premier Narenda Modi, considerato invincibile e proiettato ad un lungo dominio, riducendo al silenzio ogni tipo di opposizione, si trova costretto a ricorrere ad alleati non si sa quanto affidabili per formare il governo. Mentre Rahul Gandhi ha finalmente conquistato sul campo la palma del leder dell’opposizione. Marginalizzato dal circuito mediatico ossequiente a Modi, l’ultimo esponente della dinastia si è affrancato dal sigillo del predestinato muovendosi fuori dal riflettori e percorrendo a piedi migliaia di chilometri per tutta l’India, mostrando che anche i bramini di maggior rango si muovevano insieme alla gente comune. E alla fine questo ha pagato.

In piccolo, in Italia sta succedendo qualcosa di analogo. La segretaria del Pd continua a battere a tappeto quante più piazze riesce, senza scenografie da baraccone a fargli da contorno né mobilitazione di truppe cammellate ad affollare i comizi. Accontentandosi di attrarre chi è incuriosito dal suo interloquire totalmente altro rispetto alle battutine e battutacce della premier.

In realtà si ripropone in queste elezioni un conflitto di stile, oltre che di contributi, analogo a quello che oppose Prodi a Berlusconi. All’epoca, da un lato, il professore con la sua competenza, serietà e seriosità, talvolta percorsa da bonomia (quella che però grondava da ogni artiglio, come ritraeva Edmondo Berselli), dall’altro, il miliardario scanzonato e ridanciano; da un lato, l’atmosfera paludata e soffusa da uffici studi, dall’altro il luccichio delle mise indossate dalle soubrette (alias veline) negli studi televisivi; da un lato, il riferimento ad una dimensione europea, dall’altro, il ripiegamento nazionalistico e proto-sovranista.

Queste alternative si ritrovano tutt’ora. Tanto Schlein è in piena continuità con il suo mentore Prodi, che, rendendo onore al suo ruolo, non fa mancare qualche reprimenda, Meloni si pone in linea di successione con l’ex dominus della destra.

Il capo del governo ha assorbito presto lezione berlusconiana. In tre capisaldi, almeno. In primis, farsi scudo del sostegno americano seguendo alla lettera quanto desiderato da Washington; in secondo luogo, costruirsi dei nemici per mobilitare il proprio seguito; in terzo luogo, occupare ogni spazio comunicativo. Rimangono fuori però alcuni aspetti, fortemente dissonanti rispetto all’immagine del Cavaliere. Il più macroscopico di questi è l’irosità.

Meloni è rancorosa quanto Berlusconi era includente e pronto alla battuta, più o meno di buon gusto. Certo non mancava di durezza nei confronti degli avversari ma alla fine voleva sempre, in qualche modo, ricucire. In fondo, voleva essere amato. Meloni preferisce essere “temuta” e non a caso fa filtrare irritazioni e sfuriate nei confronti di chi ha sbagliato. È il suo passato minoritario e di nicchia che la trascina lungo questa deriva. Un handicap che ne limita le potenzialità espansive.

A ciò va aggiunta l’inevitabile competizione con gli eredi legittimi di Berlusconi. Tajani ha orientato il partito in una direzione di destra-moderata che può rivelarsi attrattiva per ex elettori di Forza Italia. L’elettorato benpensante, un tempo riversatosi a frotte sotto l’egida del Cavaliere, negli ultimi anni è andato in parte a destra tra Salvini e Meloni, in piccola parte ai Cinque stelle, e in gran parte ha alimentato il non-voto.

In vent’anni sono passati all’astensione dieci milioni di elettori. Non è detto che lì rimangano. La vera sfida si gioca su chi li (ri)conquista.

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