C’è chi, per miopia o servilismo, si ostina a negare l’evidenza ovvero la circostanza che il voto francese – battuta Marine Le Pen, vittoria della sinistra, azzardo (sì, ma riuscito) dell’arcinemico Emmanuel Macron – acuisce l’isolamento di Giorgia Meloni e la sua sconfitta su tutto il fronte nella partita sui vertici Ue. Con il pacchetto delle tre nomine, da lei osteggiate, e la maggioranza a loro supporto, vieppiù rafforzate. Come ha osservato qualcuno, Meloni non paga i suoi errori, ma la sua visione e il suo posizionamento politico. Facciamo un ripassino, che ci avvicini a una disanima meno superficiale della débâcle e delle sue cause.

Intanto la portata dell’esclusione/autoesclusione: mai in passato l’Italia si è spinta sino al punto di mettersi fuori da tutte le nomine apicali Ue. Eppure mai come oggi – a cominciare dalla entrata in vigore del nuovo Patto di stabilità per noi tanto stringente che fa seguito all’apertura di una procedura di infrazione per deficit eccessivo e al solitario rifiuto italiano di ratificare il Mes – avremmo assoluto bisogno di un rapporto collaborativo con la Ue.

Con toni gridati e stizziti la premier ha protestato per il mancato rispetto del voto dei cittadini-elettori. Un qualche spostamento a destra c’è stato, ma, come ha osservato Romano Prodi, in misura limitata: l’attuale maggioranza imperniata su popolari, socialisti e liberali perde solo una quindicina di seggi rispetto al 2019 e comunque si conferma maggioranza. Dunque, non si capisce il senso dell’asserito vulnus al volere dei cittadini.

Tale alleanza, ancorché come sempre e per definizione articolata, è la meno politicamente disomogenea sul punto che più conta ovvero la tensione europeista. Insisto sul “politicamente”: un profilo e una qualificazione che dovrebbero stare a cuore a chi dipinge la Ue come un covo di ottusi burocrati e tecnocrati e, su tale retorica, lucra consenso.

Dove sta Meloni?

Privilegiare il carattere eminentemente politico della maggioranza a Bruxelles – e dunque l’intesa tra le famiglie politiche e non il rapporto tra gli stati – è tanto più necessario in questa fase e con riguardo alla Commissione, l’organo, per sua natura, più comunitario e meno intergovernativo. Da potenziare e valorizzare, naturalmente da parte di chi scommette su una Ue più integrata. Delle due l’una: Meloni è tra costoro o no? E se no, come tutto fa intendere, con che diritto eccepisce contro chi – coerentemente e giustamente – si accorda perché invece vuole una Ue più integrata, attiva ed efficiente? O che quantomeno non regredisca.

Del resto, le destre in crescita ma tuttora minoritarie, si sono presentate divise e, dopo il voto europeo, sembra si stiano ulteriormente sfarinando in tre o quattro tronconi. Anche perché pesano profonde divergenze geopolitiche. Un esempio: un Viktor Orbán filo Putin e il Pis polacco ultra atlantista. Quest’ultimo stava per lasciare il raggruppamento Ecr presieduto da Meloni.

Non lo ha fatto, ma esso per la nostra premier si porta appresso due problemi: a) quando al governo il Pis fu sanzionato dalla Ue per vulnus allo stato di diritto; b) esso è il partito radicalmente antagonista dell’attuale premier polacco Donald Tusk, il negoziatore della famiglia dei Popolari europei. Su queste basi politiche e numeriche, come pretendere di dettare condizioni?

Il doppio cappello

È semmai palese che il doppio cappello della premier abbia nuociuto all’Italia. Curioso il suo asserito patriottismo! Troppe parti in commedia al dunque non reggono: sovranista in Italia e pretesa “statista” in Europa, amichetta di Ursula von der Leyen sulla quale si astiene ma poi fa intendere di voler negoziare.

Clamorosa poi la contraddizione tra i due vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani che spiega assai di più di certe lamentazioni meloniane il funambolismo del suo voto: no ad António Costa e Kaja Kallas, astensione su von der Leyen. Odiata dal primo (Salvini) e sostenuta dal secondo (Taiani). A sua volta campione di acrobatici equlibrismi (verrebbe da dare qualche ragione a Vittorio Feltri, sic): vice Meloni che sta nel Ppe, il partito di Ursula, l’azionista di maggioranza a Bruxelles, che sostiene l’intero pacchetto delle nomine, aspramente contestate dalla Nostra «nel metodo e nel merito». Ci vuole un coraggio sfrontato a lamentare le contraddizioni altrui da chi, in casa nostra, ne sconta di assai più vistose.

Hic rodus: la verità è sono puntualmente venuti al pettine i problemi connessi alle alleanze internazionali di Meloni. Con forze antieuropeiste e con stati ai margini. Di converso con cattivi rapporti con i paesi che contano, specie Francia e Germania, e un asse privilegiato con quelli non solo minori ma di recente sanzionati dalla Ue per violazione degli standard europei per quanto attiene a democrazia e stato di diritto (lungo la china delle “democrazie illiberali”). Cioè su un pilastro della stessa ragion d’essere della Ue.

L’inchiesta giornalistica Fanpage, che, nelle stesse ore, ha squadernato anche fuori dai nostri confini la zavorra che pesa sul partito della premier certo non ha giovato e non giova all’immagine di chi si ribella alla rappresentazione di una “estrema destra” nostrana che, solo da noi, da parte di un pezzo di establishment indulgente e compiacente, è considerata come una destra liberale e moderata.

Usa mettere il dito nella piaga sulle divisioni nel campo dell’alternativa sul sì o no alle armi all’Ucraina – un problema, ma forse non la questione principale né tantomeno quella dirimente circa i grandi indirizzi della politica estera – ma domando: è meno rilevante la divisione verticale a destra (sottolineo: interna al governo in carica, non all’opposizione) circa la visione dell’Europa e dell’Italia in essa che si è clamorosamente manifestata in questo passaggio delle nomine ai vertici della Ue che ci accompagneranno nei cinque anni a venire? Una contraddizione a sua volta tutt’altro che priva di ricadute sui rapporti transatlantici.

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