In vista del Consiglio Ue, la premier si è presentata in Aula per indicare le linee del governo. Nessun ministro leghista vicino a lei (arriva all’ultimo Valditara), velati attacchi sulla linea sia da Forza Italia che dalla Lega, che però voteranno la mozione unitaria
I ministri leghisti hanno disertato i banchi del governo durante le comunicazioni della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del consiglio europeo di oggi e domani. Solo dopo, nel corso della seduta, qualcuno è arrivato alla spicciolata: il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ha fatto la staffetta con quello dell’Autonomia, Roberto Calderoli.
La minimizzazione del capogruppo della Lega a Montecitorio, Riccardo Molinari – «Nessun problema politico, i ministri avranno
avuto altri impegni» – è stato il quello che, nel gergo della politica, è il più classico dei segnali politici. Pesa tuttavia l’occasione scelta, vista l’importanza per il governo Meloni di presentarsi solido ai tavoli europei. Al consiglio di Bruxelles, infatti, si discuterà di guerra in Ucraina, mercato unico e questioni energetiche e l’Italia spera di aggiungere anche un capitolo sul problema migratorio.La strategia leghista, però, è stata calcolata e ha puntato a mostrare la divisione dentro la maggioranza proprio sul conflitto ucraino, mostrando anche plasticamente che nel governo albergano posizioni differenti sull’invio di armi. Proprio il tema su cui la premier si è impegnata molto per non figurare come l’anello debole della diplomazia europea.
Pur senza strappare formalmente, visto l’annuncio di voto favorevole alla risoluzione di maggioranza, La Lega ha infatti voluto alzare la tensione politica. Anche in vista delle nomine ai vertici delle società di stato, su cui è in corso uno scontro fratricida nel centrodestra.
L’intervento della Lega
A prendere la parola per la Lega alla Camera è stato Stefano Candiani. I suoi toni sono somigliati a quelli duri del capogruppo Massimiliano Romeo al Senato.
Ha elencato tutti i punti critici, partendo dalla guerra in Ucraina e chiedendo a Meloni che l’azione italiana «non sia sussidiaria solo alle scelte di altri» e che l’Italia giochi un ruolo da protagonista, perchè «in queste situazioni di stress, la politica europea spesso è risultata disallineata» rispetto alle reali esigenze.
Infatti, a fronte di una collocazione convintamente atlantista di Meloni e di sostegno all’Ucraina sia con armi che con un aumento della spesa militare italiana, Candiani ha chiesto di ricordare che «è evidente che all'interno dell'Ue ci sono Paesi che hanno più difficoltà nella fornitura di energia e che hanno più dipendenza di altri rispetto ad alcune fonti energetiche».
Lo stesso vale anche rispetto alla questione dell’efficientamento energetico degli edifici entro il 2035, come previsto da una direttiva europea: «Bisogna far valere in maniera forte la nostra voce».
Infine, la Lega è tornata anche sul tema migratorio e Candiani ha sottolineato che a Cutro «non si è visto nessun esponente europeo». L’invito di fondo è quello di arrivare in Europa con un governo che ribadisca «che si fanno le cose non perché ce lo chiede Bruxelles ma perché l'interesse dell'Italia deve essere quello dell'Europa».
Il nodo dell’Ucraina
L’offensiva leghista a Meloni è cominciata due giorni fa dal Senato, in occasione delle sue comunicazioni all’assemblea. Il capogruppo Massimiliano Romeo ha espresso «forte preoccupazione per come stanno andando le cose sul fronte della guerra tra Russia e Ucraina», perchè «la cessazione delle ostilità sembra più una dichiarazione di principio. Romeo si è spinto a parlare di «deserto della diplomazia» e del «rischio di un pensiero unico», anzi di «una dolce tirannia del pensiero dominante». Parole durissime, che hanno contrastato con le parole della stessa Meloni, che aveva appena annunciato il «il pieno sostegno dell'Italia all'Ucraina» attraverso l’invio di armi anche se questo significherà un calo di consenso per il governo e l’aumento di stanziamenti per le spese militari.
Il secondo round si è svolto ieri alla Camera, dove tra i banchi semideserti della Lega anche nell’emiciclo ha preso la parola Stefano Candiani, elencando tutti i punti critici dell’azione di Meloni. L’Italia «non sia sussidiaria solo alle scelte di altri», ha detto rivolto alla premier, ricordandole che «all'interno dell'Ue ci sono Paesi che hanno più difficoltà nella fornitura di energia e che hanno più dipendenza di altri rispetto ad alcune fonti energetiche».
I toni alti sull’Ucraina sono serviti alla Lega per mettere in allerta Meloni anche rispetto alle altre questioni aperte: le nomine sono quella più impellente, ma anche sul fronte dei migranti e dell’applicazione della delega fiscale. Quello del leader Matteo Salvini, che in giornata ha preferito rimanere al suo ministero invece che andare in parlamento, è un gioco pericoloso che punta però a disallineare la struttura rigidamente verticistica di potere imposta da Meloni su tutti i dossier.
Le opposizioni divise
Nella guerra di posizionamento tutta interna alla maggioranza, le opposizioni rimangono divise e arroccate sulle proprie rivendicazioni. Nell’aula semivuota non era presente la segretaria del Pd, Elly Schlein, che invece sarà a oggi a Bruxelles per il vertice dei socialisti europei. La leader ha lasciato a Marianna Madia le dichiarazioni di voto, secondo cui «nella dimensione europea si misurano la fragilità e la debolezza della proposta politica del governo». Così, al netto dello scontro con il verde Angelo Bonelli sulla transizione energetica, la vera fiammata contro Meloni è stata lasciata al Movimento 5 Stelle. Il leader Giuseppe Conte ha ribadito le sue posizioni pacifiste e il no all’invio di ulteriori aiuti militari. «Ci state trascinando di gran carriera in guerra», ha detto rivolto a Meloni, «dobbiamo uscire dell'equivoco che il nuovo invio di armi sia l'unico modo per arrivare alla pace».
La morale della giornata, tuttavia, è stata quella di un parlamento balcanizzato. Strumentalizzando il conflitto ucraino come pretesto per far emergere la tensione interna, la maggioranza si è mostrata divisa almeno quanto la minoranza.
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