- Anche in Etiopia la premier deve fronteggiare le conseguenze internazionali della fuga di Artem Uss, che dai domiciliari a Milano è riuscito a tornare in Russia. Per la premier, ci sono state «anomalie».
- Sembra destinato a durare ancora poco lo scaricabarile del governo, che vuole attribuire la responsabilità della fuga alla magistratura, che non aveva provveduto a tenere Uss al sicuro.
- Sulla prospettiva del partito unico Meloni rallenta, smentendo Crosetto che sabato mattina aveva ipotizzato che «tutta la maggioranza potrebbe diventare un grande partito conservatore».
Lo scaricabarile del governo nel caso Uss potrebbe finire presto. Dall’Etiopia, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha preannunciato la volontà di«parlarne» con il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Com’è stato possibile che all’oligarca russo ricarcato dagli Stati Uniti e arrestato in Italia siano stati assegnati, in attesa dell’estradizione, soltanto i domiciliari da cui poi è fuggito tornando a Mosca? «La principale anomalia credo sia la decisione della corte di appello di tenerlo ai domiciliari con motivazioni discutibili e di mantenere la decisione anche quando c’era una decisione sull’estradizione: quindi credo che il ministro abbia fatto bene ad avviare un'azione disciplinare» ha detto Meloni.
Dopo la fuga di Artem Uss, figlio dell’oligarca Aleksandr Uss, governatore della regione di Krasnojarsk e amico personale di Vladimir Putin, che da Milano è riuscito a rientrare in Russia già il 22 marzo, dai canali diplomatici che corrono tra Roma e Washington è filtrata irritazione. A quel punto, il governo ha dovuto elaborare una strategia per giustificare la gestione quantomeno superficiale di un caso di massima importanza per le relazioni con gli Stati Uniti.
La causa originaria che ha portato al disastro in cui si trova ora il governo è con grande probabilità la mancanza di comunicazione. Con il ministero della Giustizia che non ha riferito dei carteggi con l’ambasciata americana, in cui i diplomatici statunitensi sottolineavano il grande rischio di fuga dell’arrestato, e, dopo l’evasione, con la Farnesina, che ha mancato di informare per tempo Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza che aveva in carico la vicenda (e la delega all’intelligence) dei malumori che arrivavano da Washington.
Da qui è nato l’imbarazzo che ha portato a imbastire una strategia di scaricabarile che passa per le comunicazioni al Copasir del governo degli ultimi giorni: quella di Mantovano, che sostiene di non aver ricevuto indicazioni sulla natura dell’arrestato dall’intelligence, quella del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che rivendica l’intervento di controllo delle forze dell’ordine in base alle indicazioni dei magistrati, e quella di Nordio che fa sapere di aver inoltrato le informazioni dei servizi americani alla corte d’appello di Milano, che però non le avrebbe prese in considerazione. Dopo la fuga, il ministro ha disposto un’ispezione negli uffici giudiziari milanesi.
Insomma, i veri responsabili sarebbero i giudici che non hanno deciso misure più gravose: ma i magistrati non vogliono sentirsi attribuire responsabilità nel caso. Per Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, secondo cui non c’è stata negligenza: «Mi pare che il ministro della Giustizia conoscesse il caso, in tutti i suoi vari passaggi». Dalla relazione inviata dai giudici al ministero, inoltre, emerge che Nordio non inviò alla Corte d’appello di Milano la nota del Dipartimento Usa della Giustizia che chiedeva di far tornare in carcere Artem Uss.
Ora, però, il caso sbarcherà in parlamento. Dopo che già la settimana scorsa Più Europa aveva chiesto a Nordio di riferire in aula, ieri anche Alleanza Verdi e sinistra e Partito democratico si sono associati alla richiesta. «Emergono le evidenti responsabilità di un ministro che aveva il dovere di dare indicazioni chiare che invece non sono state date. E ora assistiamo, nel governo, ad uno scaricabarile inaccettabile» dicono i capigruppo Francesco Boccia e Chiara Braga.
Resta da vedere come Meloni si muoverà per difendere il suo ministro della Giustizia in parlamento. Anche perché l’appoggio di Lega e Forza Italia rischia di farsi rarefatto per un membro del governo che di area meloniana, soprattutto dopo che azzurri e leghisti hanno riscoperto gli antichi legami tra di loro nella partita delle nomine delle partecipate.
Addio partito unico
Vanno collocate in questo contesto le parole di Meloni che dall’Africa ha allontanato l’ipotesi di creare un partito unico, contraddicendo il suo fedelissimo Guido Crosetto, che pure poche ore prima l’aveva evocato come potenziale sbocco della coalizione: «È proprio questa maggioranza tutta intera che potrebbe diventare un grande partito conservatore» aveva detto il titolare della Difesa.
Ma Meloni, per ora, non vede margini perché la sua strada si sovrapponga a quella di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. La presidente del Consiglio ha ben presenti le sfide tra Lega e FdI per presentare provvedimenti sempre più duri, come nel caso del decreto sui migranti o quello sulle sanzioni agli ecoattivisti, e mostrarsi all’elettorato come la vera destra securitaria. Insomma, del partito unico per ora non si parla: «Sono sempre stata convinta che la pluralità anche all’interno del centrodestra sia un arricchimento più che un problema. Il punto è la volontà di camminare insieme, quella volontà io la vedo, fermo restando quella volontà ci sono anche sfumature diverse, questo è più facile oggi farlo con i partiti, quello che succederà domani nessuno è in grado di dirlo» ha spiegato la premier da Addis Abeba.
© Riproduzione riservata