Il secondo round di Giorgia Meloni al Senato è stato sempre all’insegna dell’attacco. La premier è arrivata a palazzo Madama dopo il ruvido confronto alla Camera sulle comunicazioni in vista del prossimo Consiglio europeo e ha ripetuto il duro faccia a faccia con le opposizioni, in particolare con il Movimento 5 Stelle.

A differenza del giorno prima in cui i banchi leghisti erano rimasti praticamente tutti vuoti, ieri il partito di Salvini si è presentato – anche se non a ranghi completi - in aula per intervenire nel dibattito e ascoltare le repliche: un modo per archiviare la defezione e anche lo sgarbo nei confronti della premier. L’assenza, giustificata con meri disguidi organizzativi, aveva infatti rovinato la giornata della maggioranza, attirando l’attenzione della stampa e anche le frecciate dell’opposizione.

Del resto, anche se le frasi di circostanza sull’unità del governo vengono ripetute da tutte le forze che lo compongono, le difficoltà nel chiudere con gli emendamenti alla legge di Bilancio tradiscono tutte le fibrillazioni intestine.

Meloni, in completo bianco e sorriso affilato, si è esibita in risposte colpo su colpo. Ha difeso gli amici Elon Musk e Javier Milei: «Sono amica di tutti ma non prendo ordini da nessuno», ribattendo sia al senatore a vita Mario Monti che a Matteo Renzi. «Posso essere amica di Elon Musk e presidente di un governo che ha fatto una legge per regolamentare l'attività dei privati nello spazio» e quanto all’accordo agricolo Mercosur «non sto né con Coldiretti né con Milei, sto con l'Italia».

Poi ha fatto uscire i senatori dall’aula per protesta, quando ha risposto alle critiche su una finanziaria lacrime e sangue e di essere «succube della lobby delle banche». «Dando due numeri: 30 miliardi di euro sono i soldi che abbiamo messo in questa manovra, 38 miliardi sono i soldi che ci costerà il superbonus solo quest'anno, quindi non ci venite a spiegare dove mettere i soldi».

Anche nei confronti del Partito democratico lo scontro si è infuocato quando le è stata fatta notare l’enfasi ormai fuori tempo per la nomina di Raffaele Fitto a Bruxelles, per altro nemmeno votata dalla Lega. «La Lega non ha votato la commissione ma ha votato Fitto», è stata la risposta, rinfacciando invece ai dem che «il commissario italiano e vicepresidente della Commissione è stato preso in ostaggio per far eleggere il commissario spagnolo: è un fatto gravissimo. Il Partito democratico lo ha accettato».

Nel dibattito, tuttavia, sono emersi i punti critici per i prossimi mesi di governo: una finanziaria difficile da chiudere per ragioni tutte interne alla maggioranza sul fronte interno e la necessità di Meloni di trovare la sua collocazione in politica estera in relazione al neopresidente Donald Trump che – come è stato fatto notare dalle opposizioni – nei confronti della guerra in Ucraina sostiene una linea diversa rispetto a quella europea.

Intanto i prossimi impegni di calendario per la presidente del Consiglio sono il Consiglio europeo a Bruxelles in cui si affronteranno le crisi internazionali in Medio Oriente, Siria e Ucraina e poi un viaggio in Finlandia per il 21 e 22 dicembre, su invito del primo ministro Petteri Orpo, per partecipare al primo vertice Nord-Sud e discutere delle principali sfide di sicurezza per l’Unione europea nell'attuale quadro internazionale, dalla difesa alle frontiere. 

Le ansie leghiste

Se Meloni ha potuto chiudere le repliche con un augurio di buone feste e anche la mezza apertura a togliere la fiducia sulla legge di Bilancio a patto che si riescano a rispettare i tempi di voto entro la fine dell’anno, la Lega è ancora attanagliata da foschi pensieri e guarda al 20 dicembre come una data spartiacque.

L’attesa è per la sentenza del processo Open Arms, in cui Salvini rischia 6 anni di carcere per sequestro dei migranti in mare. «In ogni caso per noi è un win win», è il ragionamento interno al partito: in caso di assoluzione significa che il ministro ha fatto bene a mantenere il punto contro gli sbarchi; in caso di condanna si potrà urlare alla sentenza politica e tutto è già pronto per politicizzare la piazza di Palermo. «Sarà scontro con la magistratura», profetizza già un senatore.

L’unico vero fastidio, però, viene proprio dalla premier. Meloni si è sempre prudentemente tenuta fuori dalla vicenda e questa posizione non è passata inosservata, anche se ieri in Senato – anche su spinta di un intervento leghista – ha espresso «solidarietà a nome di tutto il governo». In effetti, anche in queste comunicazioni in vista del vertice europeo gli attriti sotterranei di posizionamento tra Fratelli d’Italia e Lega sono emersi.

Come ha fatto notare il capogruppo dem Francesco Boccia, «Meloni oggi è costretta a difendere le ragioni dell'Europa» e «è diventata europeista ma non riesce a confessarlo neppure a se stessa, è sotto gli occhi di tutti che non è più quella di qualche anno fa». In aula infatti la premier ha ribadito la sua linea pragmatica e moderata in politica estera ma anche di coordinamento con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, alla sua destra però la Lega ha dato sfoggio di tutto il suo scetticismo sul futuro dell’Unione europea per come disegnato dai suoi attuali vertici.

A esplicitarlo ieri è stato Massimo Garavaglia, che ha definito l’Ue «fabbrica delle regole e della burocrazia e di burocrazia le nostre imprese muoiono. Invito a rivedere queste regole». Questa, a lungo andare, rischia di essere la vera spina nel fianco per il governo Meloni: una Lega in crisi di nervi, tentata da scelte estreme.

A mettersi sull’attenti, infatti, dopo le defezioni d’aula è stato un conoscitore delle dinamiche parlamentari come l’ex Dc Gianfranco Rotondi, che a Repubblica ha avvertito i leghisti: «Quel che premia il governo è la stabilità» e «chi lo vorrebbe far fibrillare verrebbe solo penalizzato».

Eppure, per Salvini rimanere fermo non è un’opzione. Il nord - ormai unico bacino di voti rimasto - è in subbuglio dopo le prese di distanza dalla Lega nazionale del neo segretario lombardo Massimiliano Romeo e soprattutto dopo che FdI ha lanciato la sua opa sul Veneto del post Zaia, dove ora ad essere in pole position per la candidatura sarebbe il senatore veneziano Raffaele Speranzon. Non uno scenario favorevole per il segretario in vista del congresso federale di inizio 2025, programmatico sulla carta ma pericoloso nella sostanza.

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