L’occupazione cresce solo grazie all’overtourism che rafforza i B&b. La domanda interna è negativa, la manifattura è in calo verticale
Non va tutto bene, madama la marchesa. L’economia italiana non è il treno d’Europa, a dispetto del racconto governativo. La crescita arranca e la domanda interna cala. Il Pil si aggrappa all’export, ma l’industria perde terreno. Smentendo le promesse del ministro Giancarlo Giorgetti su un risultato che avrebbe «stupito».
L’occupazione va bene nei numeri, ma di contro c’è un tema sociale non secondario: affiora il tema del lavoro povero, pagato male. Benvenuti, insomma, nel favoloso mondo della Melonomics, l’economia ai tempi del governo Meloni, più attenta a raccontare che a fare.
Il risultato è che i redditi degli italiani perdono valore, già divorati dall’inflazione che solo nell’ultimo anno ha rallentato. L’unico sprazzo di ottimismo è legato all’aumento dell’occupazione, che però avviene grazie al turismo selvaggio, lo stesso che sta aggredendo i centri urbani, riempiendoli di visitatori. «Il contributo più rilevante alla crescita occupazionale viene dato dal settore terziario, per il 72,3 per cento, mentre le attività manifatturiere incidono solo del 14,7 per cento e le costruzioni del 12,7 per cento», ha rilevato l’ultimo rendiconto pubblicato dall’Inps, riferendosi al 2023.
E da qui si spiega come all’aumento dei lavoratori non corrisponda un boom del Pil: i contratti del terziario sono, per loro natura, meno sostanziosi. A chiudere il cerchio per il governo, c’è l’abbattimento di un altro totem, arrivato proprio ieri con una sentenza della Corte costituzionale: le spese sulla sanità. La Consulta ha infatti accolto in parte un ricorso della regione Campania che pone una precisa prescrizione: i tagli alla salute devono arrivare solo dopo altre riduzioni di costi.
Ceto medio tradito
Il miracolo italiano, insomma, esiste nello storytelling della destra. La contro-fotografia è stata fornita dal Censis, che nel suo rapporto annuale ha descritto l’Italia come un paese vittima della «sindrome di galleggiamento». E con un ceto medio sempre più impoverito, che attende il rispetto delle promesse della destra di una riduzione delle tasse. Impegno sfumato: è stato già rinviato eventualmente al prossimo anno.
Eppure, ancora poche ore fa, i vari leader della maggioranza si sono affannati a garantire misure miracolose. Per una volta, addirittura, i due vicepremier sono stati d’accordo. «Nella manovra bisogna inserire l’Ires premiale per le imprese che reinvestono in azienda gli utili», ha detto il segretario di Forza Italia, Antonio Tajani. Poco dopo il leader della Lega, Matteo Salvini, ha rilanciato: «Con il ministro Giorgetti stiamo lavorando per un incentivo che vada a ridurre le tasse per chi reinveste gli utili nella propria azienda».
Ma certificare gli affanni della Melonomics sono le statistiche ufficiali, a cominciare da quelle diffuse dall’Istat, che vanno in direzione contraria rispetto alle parole. La gelata invernale è arrivata con i dati sul Pil. Nel 2024 dovrebbe chiudere all’0,5 per cento, dimezzando le previsioni scritte nel governo sul Piano strutturale di bilancio.
I dati dell’istituto nazionale sono anche più severi di altre stime fornite da altre realtà, come Confindustria – durante l’audizione a Montecitorio sulla manovra – che aveva posto l’asticella allo 0,8 per cento. Un traguardo che il governo può solo sognare. Viene così sfatato un altro mito fondativo della Melonomics: «L’Italia cresce più degli altri paesi», come aveva detto di recente la premier Meloni.
La Commissione europea prevede per i paesi dell’Ue una media del Pil pari a +0,9 per cento, lo 0,4 in più rispetto alla crescita italiana, doppiata dalla Francia: l’Ocse la indica al +1,1 per cento per il 2024.
Di fronte a tutto questo, cosa fa il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti? Se la cava con un’alzata di spalle: «I dati non sono una sorpresa», ha fatto trapelare. Sorprende allora che pochi mesi abbia dato alle stampe un Psb basato su numeri sballati. Anzi, in audizione alla Camera, il numero uno del Mef si è lanciato in un esercizio di raro ottimismo: «Il Pil 2024 vi stupirà», aveva detto.
L’allarme scatta in particolare per la diminuzione dei consumi interni, scesi al -0,2 per cento per l’anno in corso. L’osservata speciale è l’industria italiana, a cui il governo ha dedicato il nome di un ministero, quello delle Imprese e del made in Italy, affidandolo ad Adolfo Urso.
Tra luglio e settembre il settore nel suo complesso ha perso l’1 per cento, spia della produzione industriale che da anni è in caduta libera. Ogni mese è un bollettino di guerra con dati negativi che oscillano tra il 3 e il 4 per cento. Del resto «l’Italia è quart’ultima tra i paesi del G20 per la crescita reale del Pil», ha osservato il senatore e responsabile economico del Pd, Antonio Misiani, commentando i recenti dati Ocse che avevano anticipato la frenata del Prodotto interno lordo.
Lavoro da overtourism
La pietra angolare della narrazione meloniana resta il lavoro. Il calo della disoccupazione è oggettivo. A ottobre era al 5,8 per cento scendendo sotto la soglia del 6 per cento. Ma qui c’è l’intreccio con la qualità dei salari, che si manifesta con il costante impoverimento delle famiglie. Un trend consolidato quella di un’economia aggrappata ai servizi. Con turismo e ristorazione a fare da traino.
«È un dato contabile: se abbiamo lavoro povero e ci sono i salari stagnanti, possiamo anche aumentare l’occupazione, ma questa non aggiunge produttività», spiega Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps e ora eurodeputato del Movimento 5 stelle. «È un modello completamente sbagliato», insiste, perché «aumentiamo l’occupazione nei B&b, ma la perdiamo nei settori a maggiore tasso di innovazione».
Tanto basta a garantire qualche comunicato di giubilo sui presunti miracoli meloniani.
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