Nella chiusura della campagna elettorale la premier va all’attacco della leader dem e accusa la sinistra di fomentare la violenza. Salvini è schiacciato tra le due duellanti, Schlein fa un discorso identitario insistendo su solidarietà, lavoro e antifascismo
Un movimento esattamente speculare. Dove Giorgia Meloni riduce al minimo, Matteo Salvini amplia oltre ogni misura. Ma mentre a destra il leader della Lega cerca inutilmente di sfilare qualche voto alla presidente di FdI, Meloni ha negli occhi solo Elly Schlein, che ha definitivamente scelto come sua avversaria, attaccandola a testa bassa.
Per l’inquilina di palazzo Chigi la chiusura della campagna elettorale appare una formalità su un percorso che la porterà a centrare l’obiettivo di classificarsi primo partito italiano. Come tutta la campagna elettorale anche la manifestazione di chiusura gira intorno a lei: prima, sul palco tutto blu sovranista si alternano velocissimi i candidati più importanti alle elezioni comunali e i capigruppo in Italia e in Europa.
Poi, un’ora di comizio della premier. Meloni è ben consapevole che durante la campagna è già sfumata la soglia del 30 per cento e ora il più importante messaggio che la presidente deve consegnare a piazza del Popolo riempita da Gioventù nazionale con le card dei detrattori che «ci rimangono male» di Instagram è uno solo. Devono sapere «quanto sia maledettamente importante questo voto europeo. Siamo a un punto di svolta, è importante che andiate a votare. Per non rischiare di scendere sotto la soglia del 26 per cento, che la porterebbe a pochi punti di distanza dal Pd di Schlein, stimato negli ultimi sondaggi prima del blackout oltre al 20 per cento.
«Eurofollie»
E giù una sequela di scenari che fa leva sulla più classica delle contrapposizioni nel bagaglio retorico della destra, noi del popolo contro loro elitari produttori di «eurofollie». Per andare a pungere la sinistra sul vivo Meloni rilancia la sua riforma del cuore, il premierato, torna su TeleMeloni e sullo schiaffo assestato al presidente Vincenzo De Luca quando negli ultimi giorni gli ha riproposto l’insulto utilizzato nei suoi confronti mesi fa. Con un capovolgimento spericolato la premier arriva a produrre una nuova versione “femminista” del suo slogan «Io sono Giorgia»: «Sono una donna e sono capace di difendermi. Sono una donna e pretendo lo stesso rispetto che riconosco agli altri. Eccola la parità. Eccolo l'orgoglio femminile».
La svolta verso la polarizzazione è imboccata, e la premier arriva a rivolgersi direttamente alla sua competitor: «Elly, è una domanda semplice, condividi sì o no che io non sia una leader democratica? Se non sono un leader democratico, cosa sono? Sono un dittatore? E se sono un dittatore, cosa si fa? La lotta armata per depormi? Sono dichiarazioni deliranti». L’avversario scelto è il Pd, il vero volto del “loro” contrapposto al “noi” secondo Meloni. I cori l’accompagnano mentre arringa la piazza contro i dem, la premier balla su «Giorgia, Giorgia», ma alla fine scompare in men che non si dica. Sono lontani i bagni di folla e le sequele infinite di selfie.
Tutto il contrario di Salvini, che promette di restare «anche fino a mezzanotte se c’è bisogno» per firmare autografi e fare foto coi suoi sostenitori. Improbabile che ce ne sia stato bisogno, visto che la stella vera che brillava ieri pomeriggio era Roberto Vannacci, che si è addirittura meritato la colonna sonora della chiusura: Generale, di Francesco De Gregori (molto presente anche a Roma, «la storia possiamo essere noi» ha detto la premier). Mentre Salvini la cantava a pieni polmoni con pollici alzati e sorrisi per i fotografi, Vannacci era già sotto al palco inseguito dalle troupe.
Il suo comizio ha toccato tutte le corde care allo spicchio di piazza Duomo dietro l’abside che la Lega si è presa. Niente a che vedere con i fasti di una volta, ma il generale è soddisfatto e trova l’unico paragone che tutti aspettavano: «Siete tantissimi, è come avere davanti a sé una legione, la decima legione». Promette di ricorrere al sabotaggio se in Europa non dovessero dargli retta, e chiude con un sobrio riferimento cinematografico: «Al vostro segnale, scateneremo l’inferno».
Prima di lui parlano i colonnelli della Lega. Molto più defilata la chiusura di Salvini, che strizza l’occhio ai no-vax, torna a scagliarsi contro burocrati e banchieri europei passando per Soros e il piano casa. Arriva a chiedere scusa per l’alleanza con Draghi e il Pd, ma si mostra sicuro che gli elettori torneranno, non risparmiando qualche zampata agli alleati: grande protagonista del suo discorso la pace, accompagnata da ben due riferimenti musicali, Blowing in the wind di Bob Dylan e Give peace a chance di John Lennon e Yoko Ono. A scanso di equivoci.
La versione di Schlein
Anche il leader della Lega tenta la strada dell’attacco alla segretaria dem: «Con Schlein alla guida del Pd governeremo per altri trent’anni». Ma il colpo non affonda, il duello vero corre tra la premier a piazza del Popolo e la leader del Pd che parla sotto l’arco della Pace.
Il riferimento della segretaria è a tutt’altra Europa da quella che hanno in mente i sovranisti, quelle delle ong di Cecilia Strada che hanno supplito alle mancanze di Bruxelles, quella che vuole superare i paradisi fiscali e quella del salario minimo. Schlein ricorda David Sassoli e propone un ruolo più centrale per l’Europa ai tavoli negoziali dei conflitti che deve passare dalla richiesta di un cessate il fuoco e dal riconoscimento dello stato palestinese.
Poi, l’elenco di tutti gli errori che ha fatto il governo nell’ultimo anno e mezzo. Senza risparmiare una buona dose di autocritica per non aver approvato lo ius soli quando c’era modo. Alle accuse personalizzate della premier Schlein risponde con l’orgoglio dell’identità della comunità del Pd: «Noi siamo orgogliosi della nostra identità che è antifascista e si fonda sulla Costituzione, lei non può dire la stessa cosa». Ma c’è un tratto che unisce le due duellanti: l’importanza della mobilitazione dei propri elettorati di riferimento. «Dopo un anno e mezzo così si vede quanto serve il voto». Anche l’Italia antifascista che Schlein chiama a raccolta deve andare alle urne.
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