- Di Giorgia Meloni si è detto e scritto moltissimo e della sua storia conosciamo numerosi dettagli. Ma ci vorrà del tempo prima di capire che tipo di presidente del Consiglio vorrà essere
- Gli outsider, una volta ascesi al potere, sono imprevedibili quanto al modo di esercitare la leadership. A volte rimangono outsider nell’anima, a volte si “istituzionalizzano”.
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
Di Giorgia Meloni si è parlato e scritto molto, e della sua storia privata e politica conosciamo numerosi dettagli. Pertanto, come previsto dai canoni della politica personalizzata contemporanea secondi cui i leader politici diventano personaggi a noi quasi intimi, ci sembra di conoscerla bene. Tuttavia, al suo esordio come prima donna presidente del Consiglio, rimangono diverse incognite su quello che sarà il suo stile di leadership al governo. Probabilmente ci vorrà del tempo prima di capire che tipo di guida dell’esecutivo Meloni saprà e vorrà essere.
Lo stile di un leader dipende da un complesso di fattori tra cui spiccano il carattere e la motivazione. Una cosa che sappiamo con certezza è che Meloni è stata, fin da giovanissima, guidata da una forte passione per la politica. L’altra cosa che sappiamo è che per lei la militanza è stata una questione di identità di gruppo. Nella sua autobiografia Io sono Giorgia, colpisce in modo particolare il modo in cui racconta il rapporto che la lega alle persone con cui fa politica da sempre. La prima domanda da farsi è quindi se questo suo vissuto si trasferirà nell’esperienza di governo. Sarà cioè in grado di ricreare lo stesso senso di coesione e collaborazione in una compagine di governo che include molti con i quali non ha in comune né un percorso politico né riferimenti culturali?
Soldato della politica
In un altro passaggio dell’autobiografia, quando rievoca l’uscita dal Popolo delle libertà, il sodalizio con Guido Crosetto e la fondazione di Fratelli d’Italia, Meloni afferma: «Io mi sono sempre considerata un soldato della politica, mentre quella folla era alla ricerca di un condottiero. Non volevo essere sola a guidare quella traversata, servivano menti fini e spalle larghe, esperienza e passione, e qualcuno da guardare negli occhi quando hai bisogno della forza necessaria».
Da quel momento è passata una decina di anni e Meloni ha avuto molte occasioni di confermare le sue qualità di leader a sé stessa e agli altri. Ora è sola al comando del governo. Tuttavia, anche la leadership individuale contempla modelli più o meno collaborativi. Staremo a vedere se il suo sarà più uno stile decisionista e risoluto di chi si impone o uno negoziale di chi cerca di arrivare a decisioni condivise almeno all’interno della propria squadra di governo.
Quel che si è visto finora è che, nella fase di formazione del governo, Meloni si è presa tutta la centralità che le spettava dopo il successo elettorale concedendo poca ribalta agli altri leader della coalizione. Nella storia del potere femminile le iron ladies non mancano.
Con colei che ha reso popolare la definizione, cioè Margaret Thatcher, Meloni ha poco in comune quanto a idee, ma forse l’archetipo della donna il cui forte carattere risalta di fronte all’inadeguatezza dei colleghi maschi potrebbe esserle più congeniale di un modello materno attraverso cui la leadership femminile si è spesso manifestata anche nell’ambito della destra populista.
Il rapporto con la maternità
Tra le donne di destra il vantaggio della rappresentazione materna è indubbiamente quello di conciliare l’esercizio della leadership con la visione tradizionale del ruolo della donna nella società. A questo proposito, Meloni tiene a sottolineare il fatto di essere una madre, ma altra cosa è ovviamente la maternità simbolica.
Da questo punto di vista, non siamo di fronte a un’Eva Perón, la madre del popolo argentino, perfetta incarnazione di un carisma populista al quale probabilmente nessuna leader può più nemmeno aspirare nell’èra di una comunicazione in cui lo spettacolo prevale su qualunque afflato mistico.
Ma finora Meloni non è mai nemmeno apparsa simile alla fondatrice e leader del Partito popolare danese Pia Kjaersgaard, esplicitamente rappresentata come la madre del partito, finanche nel materiale propagandistico. Non si può escludere nulla a priori, ma almeno si può supporre che se, strada facendo, Meloni finirà con l’aderire a un qualche modello, è poco probabile sia questo.
Meloni l’outsider
Il punto da sottolineare è che Meloni è in politica da molto tempo e il suo carattere battagliero, l’eloquio sciolto sfoderato in una moltitudine di comizi e di talkshow, la sua prontezza nel cavalcare i temi caldi della politica sono a tutti ben noti. Ma la sua è stata soprattutto una leadership di opposizione. A ciò si aggiunge un’altra variabile, cioè quel tratto da outsider, legato all’essere donna in un mondo ancora molto mascolinizzato e ancora più a quella originaria scelta esistenziale di aderire a una forza politica tenuta ai margini del sistema.
Gli outsider, una volta ascesi alle posizioni apicali, sono sempre un po’ imprevedibili quanto al modo di esercitare la leadership. A volte rimangono outsider nell’anima, a volte si “istituzionalizzano”. Per tutte queste ragioni, si apre ora per Meloni una fase nuova; come leader, il suo stile è in via di definizione.
Quel che è, se non certo, almeno molto probabile è che qualcosa dovrà cambiare nelle strategie comunicative. Tra i leader populisti italiani Meloni è forse quella che più di tutti ha puntato su un’immagine di normalità che ben si prestava al suo stile di vita e al suo ruolo. È vero che c’è stata una crescente pop-izzazione – che ha ben raccontato Sofia Ventura il mese scorso su queste pagine – la quale ha implicato un’ampia narrazione del privato, a cominciare dall’autobiografia.
Ma Meloni è comunque rimasta una celebrità della porta accanto, a differenza della star Berlusconi e di Salvini, anche lui uomo del popolo, ma pur sempre uno che si fa chiamare capitano. A Meloni la celebrizzazione è servita più che altro come strategia rassicurante, atta a scindere la forma dai contenuti di una proposta politica radicale. Così, mentre le parole pronunciate esprimevano concetti forti, il sorriso, la battuta, la trovata divertente stemperavano il tutto.
Una cifra pop
Il percorso di Meloni può ricordare quello di Marine Le Pen, impegnata a de-diabolizzare un partito a lungo associato a quel capo abrasivo e provocatore che era stato suo padre. Ma tra le due esperienze c’è una differenza fondamentale. Le Pen si è posta subito l’obiettivo del rendersi presidenziale e quindi la sua popolarizzazione è stata fatta di immagini patinate e di quel tanto di grandeur che poteva rendere plausibile perfino lo spot della campagna 2017, che si apre con Le Pen su una scogliera, vento tra i capelli, e prosegue mostrandola mentre conduce una barca, perfetta metafora del leader timoniere.
Invece, la cifra pop di Meloni è stata di tutt’altro genere, piuttosto un mix tra understatement e ironia. Compresa la capacità di scherzare sui famosi video dell’“io sono Giorgia”, nati come forma di satira non certo lusinghiera e poi diventati veicolo di popolarità per la leader di Fratelli d’Italia.
Ma ciò che può funzionare quando si è a capo di un partito di opposizione e di dimensioni limitate, per il quale alcuni eccessi possono essere il mezzo di attirare attenzione mediatica, stride quando la carica richiede autorevolezza. Non è più l’ora di questo tipo di pop. Anche da questo punto di vista non resta che attendere gli sviluppi.
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