La premier parla di «collaborazione» con gli istituti di credito: «Non sono avversari». Da loro un contributo anticipato da 3,5 miliardi. Dal voto sul commissario alla legge di Bilancio, fino al referendum e ai processi dei ministri, i prossimi mesi saranno una corsa a ostacoli
Subito dopo il consiglio dei ministri notturno che ha dato il via libera alla manovra di Bilancio, Giorgia Meloni ha tagliato corto nei confronti degli alleati con un: «Questo è il massimo possibile». Poi è volata all’estero e rimarrà lontana dall’Italia almeno fino alla prossima settimana: ieri era già a Bruxelles per il vertice tra l’Unione europea e il Consiglio di cooperazione del Golfo, oggi comincia la due giorni di consiglio straordinario e poi la premier partirà alla volta del Libano e della Giordania.
Un tempo denso di impegni istituzionali, ma anche utile a far decantare i contenuti di una manovra che i critici dentro il governo definiscono «burocratica». Meloni sa che i prossimi mesi saranno una traversata nel deserto, fitti di date cerchiate in rosso e di rischi sottesi.
La manovra
Per questo anche da Bruxelles la premier ha scelto toni concilianti per affrontare l’unico punto veramente chiaro della manovra: «Non volevamo dare il segnale che le banche sono avversarie, per questo c'è stata collaborazione», ha spiegato. In manovra, infatti, è stato previsto quello che è stato definito un «contributo» da parte di banche e assicurazioni sotto forma di una anticipazione di liquidità al bilancio dello Stato da 3,5 miliardi di euro in due anni, da destinare «alla sanità e ai più fragili». Tradotto, una sorta di anticipo da parte degli istituti di credito.
«Non si tratta di un aumento di tasse», ha ribadito con forza Antonio Tajani, che con Forza Italia si è sempre messa di traverso a tasse sugli extraprofitti e intende vigilare su qualsiasi mossa che possa turbare i colossi finanziari. Certo è che il testo così com’è rimane vago - a partire dai tagli lineari prospettati ai ministeri - e dovrà comunque superare lo scontento degli alleati di Lega e FI, che non hanno incassato alcuna misura caratterizzante e si sono sentiti opporre un niet da parte della premier, che ha preferito il blitz notturno a una logorante contrattazione.
La questione Fitto
Non c’è solo il fronte interno, però. Una delle questioni ancora in bilico riguarda l’Ue ed è stata posta dalla stessa Meloni proprio nella relazione al parlamento pre-consiglio: la nomina di Raffaele Fitto a commissario europeo e vicepresidente esecutivo della commissione di Ursula von der Leyen. La premier ha chiesto apertamente al Pd -che è la delegazione più numerosa del gruppo dei Socialisti europei - di essere patriottico e sostenere il commissario italiano ma soprattutto di arginare le pressioni su von der Leyen.
I Socialisti (ma anche i Verdi e i Liberali), infatti, stanno lavorando ai fianchi della presidente della Commissione per non concedere a Fitto la nomina di vicepresidente esecutivo: nessuna questione personale sul commissario o sulle sue deleghe né sulla sua nazionalità, viene spiegato, il problema è politico ed è legato alla sua appartenenza al gruppo dei conservatori Ecr, che non fa parte della maggioranza. «La sua vicepresidenza viene vista come un allargamento della maggioranza a destra», spiegano fonti europee, «se il commissario italiano fosse stato di Forza Italia non sarebbe sorto alcun problema, perché avrebbe fatto parte del Ppe».
Questo quindi è il punto che ha messo in allarme la premier ma che sta creando qualche grattacapo anche dentro i dem, dove c’è la consapevolezza che esista un “problema Fitto”, con il rischio che S&D si spacchi nel voto sulla commissione, se l’ex ministro conserverà la vicepresidenza.
Perderla è una eventualità che Meloni non intende contemplare: la vicepresidenza esecutiva per Fitto è proprio ciò che ha permesso al governo di rivendicare il successo in Ue. La delega ottenuta – quella alla coesione – è infatti obiettivamente di minor autorevolezza rispetto a quella agli Affari economici esercitata da Paolo Gentiloni.
I passaggi futuri sono due: il 12 novembre Fitto verrà ascoltato in Parlamento e interrogato per testarne l’adeguatezza. Poi, il 1 dicembre, la nuova Commissione dovrà insediarsi. Il voto è su tutta la squadra e non sui singoli commissari, ma il timore è che, in quaranta giorni, von der Leyen venga convinta a ricredersi.
I guai giudiziari
Apparentemente marginali perché circoscritti a singoli casi, il governo continua ad avere in corpo le bombe pronte a esplodere dei casi giudiziari: il possibile rinvio a giudizio della ministra del Turismo, Daniela Santanchè e il processo Open Arms a carico del vicepremier Matteo Salvini, ormai arrivato alle battute finali. Il primo caso preoccupa più del secondo, con la possibilità di dimissioni che accompagnerebbe all’ipotesi di un rimpasto.
Altre turbolenze, poi, potranno arrivare anche dalla decisione della Corte costituzionale del 12 novembre, con la camera di consiglio per decidere sul quesito referendario sull’autonomia differenziata.
Se arrivasse un via libera, Meloni dovrebbe prepararsi a una tornata referendaria primaverile, che metterebbe in agitazione la Lega e in imbarazzo il suo partito e FI, da sempre tiepidi sulla riforma. Infine – nessuno in maggioranza lo scorda – pende ancora l’elezione dei giudici costituzionali (a dicembre ne scadono altri tre) che ha già costretto la premier a una infruttuosa caccia alle talpe con conseguente sfogo: «Alla fine mi dimetterò per questi». Un futuro con più ombre che luci, da qui a fine anno.
© Riproduzione riservata